#finestrini dei treni
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«Non lo saprà nessuno
che abbiamo vissuto,
che abbiamo toccato le strade coi piedi,
che andavano allegri,
non lo saprà nessuno.
Che abbiamo guardato il mare
dai finestrini dei treni,
che abbiamo respirato l’aria
che si posa sulle sedie dei bar,
non lo saprà nessuno.
Siamo stati sulla terrazza della vita
fintanto che sono arrivati gli altri»
(Nino Pedretti)
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“Non lo saprà nessuno.
Che abbiamo vissuto,
che abbiamo toccato le strade coi piedi
che andavamo allegri,
non lo saprà nessuno.
Che abbiamo guardato il mare
dai finestrini dei treni,
che abbiamo respirato
l’aria che si posa
sulle sedie dei bar,
non lo saprà nessuno.
Siamo stati
sulla terrazza della vita
fintanto che sono arrivati gli altri.”
Al vòusi- Nino Pedretti
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Non lo saprà nessuno
che abbiamo vissuto,
che abbiamo toccato le strade coi piedi
che andavano allegri,
non lo saprà nessuno.
Che abbiamo guardato il mare
dai finestrini dei treni,
che abbiamo respirato
l’aria che si posa
sulle sedie dei bar,
non lo saprà nessuno.
Siamo stati
sulla terrazza della vita
fintanto che sono arrivati gli altri.
Nino Pedretti
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Che abbiamo vissuto, / che abbiamo toccato le strade coi piedi, / che andavamo allegri, / non lo saprà nessuno. / Che abbiamo guardato il mare / dai finestrini dei treni, / che abbiamo respirato / l’aria che si posa / sulle sedie dei bar, / non lo saprà nessuno. / Siamo stati / sulla terrazza della vita / fintanto che sono arrivati gli altri.
(Nino Pedretti)
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Ci piacciono gli ‘amori da favola’ perché non sappiamo minimamente quale sia la loro storia, o di come siano arrivati a sembrarlo. Ci piacciono i biglietti aerei fatti all’ultimo minuto, l’emozione che scorre oltre i finestrini dei treni, i messaggi nel cuore della notte che fanno rumore e ci portano via dal temuto silenzio, gli abbracci che ci tengono stretti quando siamo terrorizzati all’idea di non riuscirci da soli. Eppure non abbiamo la minima idea di cosa sia realmente successo prima di quell’istante di felicità; una litigata furiosa per cui pentirsi, una discussione troppo accesa, l’orgoglio che non sa chiedere scusa, una rinuncia, un compromesso, un’aspettativa delusa. Crediamo che l’amore esista in un solo, unico gesto e, in esso, siamo convinti di poter vivere per sempre, dimenticandoci di tutto il resto. Ma non dovremmo ricercare l’amore come scusa per allontanarci il più lontano possibile dal nostro dolore. L’amore non è un rifugio, una casa accogliente, un porto sicuro. È uno strumento per abbracciare le nostre paure e vincerle.
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Non lo saprà nessuno
che abbiamo vissuto,
che abbiamo toccato le strade coi piedi
che andavano allegri,
non lo saprà nessuno.
Che abbiamo guardato il mare
dai finestrini dei treni,
che abbiamo respirato
l’aria che si posa
sulle sedie dei bar,
non lo saprà nessuno.
Siamo stati
sulla terrazza della vita
fintanto che sono arrivati gli altri.
Nino Pedretti
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dentro le gocce d'acqua sui finestrini dei treni e anche su altri tipi di superfici trasparenti il mondo va sotto sopra
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Impressione verticale n°01: a volte i treni
A volte i treni attraversano campagne
Campagne ampie, prati che sembrano polmoni
A volte guardo fuori dal finestrino e vedo
Distese
Di natura
E mi chiedo
Se quella natura la romanticizzerei
Se vivessi
Nella natura stessa
Se vivessi
In un casolare
Persa tra valli materne
Con il profilo di una città sullo sfondo
E quello di un paese che si staglia lontano,
come se fosse incollato
sulle colline sinuose
che ancheggiano
ai margini
del mio campo visivo
Mi chiedo
Se la romanticizzerei
O se finirei con il romanticizzare la città
Il viavai tra un negozio e l'altro
La velocità dei raggi delle biciclette
Il tintinnio delle birre abbandonate per strada la sera
Le coppie che si baciano di notte illuminate,
di sbieco,
dai lampioni
Mi chiedo se forse
Se forse in quei polmoni e in quel deserto
Io non ricerchi qualcosa
Che non potrei trovare
Lì o altrove
E il treno continua il suo viaggio
E io guardo fuori dai finestrini sporchi
Provando nostalgia per mondi
Che non ho mai visto
E probabilmente mai vedrò
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Incontro al buio
Un omino piccolo scese dal treno, sui trent'anni, stempiato, con grandi occhi azzurri dentro profonde orbite; un impermeabile beige come quello del tenente Colombo, scarpe marrone rossiccio squillante. "Oddio, cos'ho fatto di male nella vita, tutti a me devono capitare," pensai. Mi si avvicinò con un sorriso spaesato e fiducioso. "Amore," mi disse. Ma certo, mi rincuorai, dopo quella parola sarebbe stato tutto facile.
Entrammo al McDonald della stazione, scelsi un posto vicino alla vetrina perché volevo che tutti vedessero che finalmente ero in compagnia. Notai i sordomuti, che si riunivano ogni giorno a parlare alla testa dei treni, guardarci e animarsi. Lui scelse un gelato fiordilatte decorato di diavolina e un caffè che con tutto lo zucchero che ci versò, divenne denso come uno sciroppo. Mise la mano sul tavolo ed io la presi. Unimmo i palmi fino a sentire il vuoto d'aria tra essi; non osavo staccarli per timore di creare un rumore molesto; attesi un acciottolio di stoviglie per farlo.
Usciti dal fast-food, lui comprò un quotidiano. Lo sospinsi delicatamente con le spalle verso la parete accanto all'edicola e ve lo inchiodai con tutta la pressione del mio corpo ed un bacio. Lui accettò tutto di buon grado, con una contentezza pacata, lontana dalla passione e dall'entusiasmo. "Sono un epicureo," disse a un certo momento. "Ti accompagno in albergo," gli dissi, ansiosa di mettere a punto la nostra conoscenza. "Non ho bagaglio, non resto," il mio mondo crollò per un istante. "Sono venuto a prenderti," soggiunse subito dopo.
Nello scompartimento del treno, sul sedile, trovammo un grosso cuscino, lasciato da qualche precedente passeggere. Lo misi sulle mie gambe e lo invitai a poggiarvi la testa. "Vorrei farti stare comodo come mi dicesti che fece quel tuo amico nel viaggio da Firenze a Roma quando eri malato. Non voglio essere da meno di lui".
Non appena il treno uscì dalla città, entrò in un lungo tunnel oscuro che in quel punto non ricordavo ci fosse. "Dove stiamo andando? Abbiamo sbagliato treno?" chiesi un poco allarmata. La luce nello scompartimento non si era accesa. In quel buio, entrò il controllore che, anziché chiedermi il biglietto, me ne mostrò uno scritto da me, illuminandolo con la torcia del cellulare: "Addio, addio. Vieni a prendermi, amore." "Visto che non ho mancato?..." disse Occhi Azzurri sistemando meglio la propria testa sul cuscino, sorridendomi alla luce della torcia. Poi, dai finestrini irruppe una luce che sembrò farli esplodere e tutto l'interno del treno fu bianco. I vagoni si fermarono.
Tutti i passeggeri scesero, ed anche io con Occhi Azzurri misi piede a terra. Tutto era coperto di neve farinosa a perdita d'occhio. Gli altri passeggeri, nere sagome a coppie o piccoli gruppi, si dispersero in una nebbia bianca che sembrava essere scesa per accoglierli. "Visto? Gli indizi che ci fosse terra erano tanti, non era una semplice supposizione. Finalmente il viaggio è terminato. Almeno per un po' di tempo ci sentiremo beati," disse.
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25 mag 2023 15:51
"JOHN, PAUL E GEORGE VOLEVANO FARE I MUSICISTI. IO VOLEVO FARE IL CHIMICO" - È MORTO A 81 ANNI CHAS NEWBY, IL PRIMO BASSISTA DEI BEATLES CHE SUONÒ CON I "FAB FOUR" NEGLI ANNI '60, PRIMA CHE DIVENTASSERO FAMOSI - IL SUO RIFIUTO ALLA BAND FU LA SVOLTA CHE CONVINSE PAUL MCCARTNEY A IMBRACCIARE IL BASSO - "LE PROBABILITÀ DI FARCELA CON LA MUSICA ERANO MINUSCOLE A QUEL TEMPO. DA QUANDO IO LI HO LASCIATI AL SUCCESSO DI 'LOVE ME DO' SONO PASSATI DUE ANNI. LORO CE L'HANNO FATTA SOLO GRAZIE A…" -
Estratto dell'articolo di Chiara Bruschi per “il Messaggero”
«Le persone non mi credono quando dico che non ho rimpianti. Ma davvero non ne ho. Ho goduto della mia vita immensamente». Chas Newby […] se ne è andato all'età di 81 anni, […] questo bassista sconosciuto, che ha vissuto lavorando per un'azienda che produceva parabrezza e quando è andato in pensione si è messo a insegnare matematica ai ragazzi delle superiori, avrebbe potuto diventare invece una rock star, negli anni Sessanta.
Lui, il quinto Beatle mancato, è stato il primo bassista mancino della band. E quando la storia gli ha dato la possibilità che in molti avrebbero fatto carte false per avere, ha semplicemente fatto i conti con se stesso, con le sue ambizioni più sincere, e ha detto «no, grazie». «La musica non sarebbe mai stata la mia fonte primaria di vita. Tutti noi in quel tempo pensavamo a quello che avremmo voluto fare da grandi. Alcuni volevano insegnare, altri lavorare nella scienza. Io volevo diventare chimico. John, Paul e George, volevano fare i musicisti», confiderà negli anni Novanta in una lunga intervista.
I FAB FOUR
Per raccontare questa incredibile storia occorre tornare nel 1960, […] Durante le vacanze di Natale, l'allora batterista Pete Best - più avanti sostituito con Ringo Starr - fa il nome di Chas a John Lennon, Paul McCartney e George Harrison. Di ritorno da Amburgo, dove avevano suonato nei locali le cover di Buffy Holly e Chuck Berry, erano in cerca di un bassista che sostituisse il loro, Stuart Sutcliffe, rimasto nella città tedesca.
E così, per una sterlina a serata, Chas accetta di esibirsi con gli altri musicisti ma alla fine delle gig, ovvero delle serate concordate, decide di tornare al college. E quando Lennon gli chiede di seguirli in tour nella Germania dell'Ovest, dove stavano per tornare visto il successo delle settimane precedenti, Chas rifiuta. Il "no" di Chas ha cambiato per sempre la storia dei Beatles perché ha portato Paul McCartney a imbracciare lo strumento. […]
«Devi capire - aveva detto Chas a Birmingham Live che lo aveva intervistato alcuni anni fa - che le probabilità di farcela erano minuscole a quel tempo. Da quando io li ho lasciati al successo di Love me do sono passati due anni. A Liverpool non c'erano studi di registrazione, non c'era produzione musicale. Era tutto a Londra. Ce l'hanno fatta solo grazie al duro lavoro di Brian Epstein, il loro incredibile talento e il tempismo». […]
L'INSEGNAMENTO
Nato a Liverpool nel 1941, Chas ha 19 anni quando rifiuta la richiesta di Lennon. Si laurea e ottiene un master in Ingegneria chimica alla Manchester University. Dieci anni dopo, con la moglie Margaret con cui avrà due figli e quattro nipoti - si trasferisce ad Alcester e comincia a lavorare per la Triplex, azienda che produce finestrini per treni e aerei, inclusi i jet della RAF o della flotta Concorde. Nel 1990 va in pensione e decide di studiare per insegnare matematica alla Warwick University. […]
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Bergamo, il fotografo Roberto Salbitani alla fiera d’arte moderna e contemporanea della città
Bergamo, il fotografo Roberto Salbitani alla fiera d’arte moderna e contemporanea della città. L’edizione 2023 di BAF, la fiera d’arte moderna e contemporanea di Bergamo, ospiterà, come evento collaterale promosso da Promoberg s.r.l., la mostra “Il viaggiatore parallelo” di Roberto Salbitani, uno dei maestri della fotografia italiana contemporanea. La mostra, a cura di Sergio Radici, sarà allestita all’ingresso della fiera di Bergamo dal 13 al 22 gennaio 2023 e si compone di 20 fotografie in bianco e nero accomunate dal tema del viaggio in treno. Un viaggio lento in cui farsi trasportare, come dice l’autore, “a corpo morto”, restando orizzontali e paralleli al paesaggio, mentre lo si attraversa sui binari e lateralmente, senza poterci entrare, da spettatori ripiegati su se stessi. Il tempo del viaggio, da parentesi apparentemente sospesa tra due luoghi e due occupazioni quotidiane, è in realtà un tempo pieno durante il quale ci si può finalmente abbandonare all’immaginazione e ai propri pensieri più intimi. È in questo spostarsi che Roberto Salbitani, da viaggiatore parallelo, non subisce il tempo, ma lo vive accostandosi al viaggio in punta di piedi, mettendosi in ascolto, “in attesa di un prodigio”. Che non tarda ad arrivare perché la meraviglia è il viaggio stesso, in cui, alloggiati “per un po’ in un corpo di ferro e di finta pelle diviso in tanti scomparti”, possiamo assistere alla visione fugace di paesaggi incorniciati dai finestrini del treno, grandi “mirini predisposti alla ripresa”. A questo “mutismo scenografico” del vagone, mentre scorrono le immagini esterne, sempre mutevoli, fanno da contraltare i viaggiatori, ospiti anch’essi temporanei di un viaggio condiviso per un lasso di tempo, riuniti nello stesso luogo il più delle volte dal caso. Dice Roberto Salbitani: “Il treno è un contenitore di esistenze che non si sono scelte”. E in questo spazio-tempo comune in cui le vite si incrociano per un istante, ognuno osserva e viene osservato in uno “sguardo multiplo e sincronico”. “Il treno è una girandola continua di sguardi”, che pone interrogativi sull’identità, propria e altrui, senza donare, come in un racconto di Calvino, la certezza di una risposta. Il viaggiare di Salbitani, nel suo fotografare discreto, non si risolve infatti in un topos estetico ma si fa domanda e ricerca esistenziale, in un’analisi interiore connaturata al suo sguardo di fotografo, che usa la macchina fotografica per vedere più a fondo. In una sintesi estrema del fascino offerto da questo mezzo di trasporto ottocentesco, figlio della seconda rivoluzione industriale al pari della fotografia, Salbitani afferma: “Il treno è metafora di vita. È interno ed esterno, organismo introflesso ed estroflesso, luce ed ombra. Camera chiara personale ma anche camera oscura pubblica”. Le fotografie esposte negli spazi di Bergamo Arte Fiera sono parte del progetto omonimo avviato tra gli anni Settanta e Ottanta, un’ottantina di fotografie scattate dall’interno dei treni in viaggio tra Italia, Francia e gli Stati della ex Jugoslavia. Dalla raccolta di queste fotografie e degli scritti teorici e personali relativi al viaggio nasce nel 2019 il volume “Roberto Salbitani, Il viaggiatore parallelo. Fotografie e scritti in diretta dal treno”, edito da Contrasto. Un tassello che si aggiunge alle già molte pubblicazioni dell’autore che indaga, con sguardo sempre genuino, il difficile rapporto tra l’uomo e l’ambiente in cui vive, dalle città in crescita ai territori snaturati dal violento processo di urbanizzazione. L’autore affianca all’attività di fotografo quella di insegnante e compagno di strada in programmi integrati di fotografia, dai “corsi in viaggio” alla Scuola di Fotografia nella Natura da lui fondata. Roberto Salbitani sarà presente negli spazi di Bergamo Arte Fiera sabato 14 gennaio alle ore 15.00 per una conversazione sul suo lavoro intitolata “La vista immaginativa in 10 movimenti”: un dialogo con Roberta Valtorta, storica della fotografia, che a Salbitani ha dedicato nel 2013 un’ampia retrospettiva al Museo di Fotografia Contemporanea di Cinisello Balsamo. LA BIOGRAFIA: Roberto Salbitani (Padova, 1945) inizia a fotografare nei primi anni Settanta durante i molti viaggi che compie in Italia, Europa, America e per mantenersi scrive di fotografia e di cinema. La dimensione del viaggio e delle esplorazioni fuori programma diventa così una costante del suo modo di porsi in rapporto con il mondo. Nel 1980 fonda il Centro Fotografia Giudecca, attivo fino al 1985. Nel 1986 dà vita a Mogginano, in provincia di Arezzo, alla Scuola di Fotografia nella Natura dove conduce stage fino al 1996. Successivamente la scuola si trasferisce in altre località situate in paesaggi naturali (Faenza, Siena) e i corsi confluiscono dopo il 2000 nelle attività del C.R.A.F di Spilimbergo. Sue opere sono presenti in collezioni pubbliche, tra cui Biblioteque Nationale - Paris, Museum of Modern Art - New York, Musee de la Photographie - Charleroi, Museo di Fotografia Contemporanea - Cinisello Balsamo, Museo Alinari della Fotografia – Firenze, Archivio Prima Luce e delle Stampe Obsolescenti - Roma. IL LIBRO: Roberto Salbitani, Il viaggiatore parallelo. Fotografie e scritti in diretta dal treno, ed. Contrasto, Roma, 2019. SCHEDA EVENTO MOSTRA Titolo: “Il viaggiatore parallelo”. Autore: Roberto Salbitani. A cura di: Sergio Radici. Date: da venerdì 13 a domenica 22 gennaio 2023. TALK Titolo: “La vista immaginativa in 10 movimenti”. Relatori: Roberto Salbitani e Roberta Valtorta. Data e ora: sabato 14 gennaio, ore 15.00. Luogo: Fiera di Bergamo, via Lunga – 24125 Bergamo. Orari: venerdì 15 – 19; sabato e domenica 10 – 19. Biglietto di ingresso: Biglietto intero 10 euro; ridotto (over 65) 8 euro - Biglietti Online: intero 9 euro; ridotto (over 65) 7 euro. Parking: a pagamento, eccetto per persone con disabilità. Contatti Bergamo Arte Fiera: +39 035.32.30.911, [email protected], www.bergamoartefiera.it Organizzatore: Promoberg s.r.l. Ufficio stampa esterno: M2F Communication, [email protected], tel. +39 3491509008, +39 3274934187. ... #notizie #news #breakingnews #cronaca #politica #eventi #sport #moda Read the full article
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NON LO SAPRA’ NESSUNO
Che abbiamo vissuto,
che abbiamo toccato le strade
coi piedi che andavano allegri,
non lo saprà nessuno.
Che abbiamo visto il mare
dai finestrini dei treni,
che abbiamo respirato l’aria che si posa
sulle sedie dei bar,
non lo saprà nessuno.
Siamo stati sulla terrazza della vita
fintanto che sono arrivati glia altri.
Nino Pedretti
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Come passano i paesaggi dai finestrini dei treni
passeggi di persone nei corridoi, guardando
il dentro si riflette fuori, nei più distratti versi
si susseguono rumori pendolari, umori persi
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Mi innamoro dei piccoli gesti. Silenziosi, di cui nessuno si accorge. Che non amano fare rumore. Che non amano farsi scoprire. Di un amico che si avvicina al tuo orecchio quando vede che all’improvviso sparisci e ti sussura un semplice “ehi...”
Di chi inizia a sparecchiare prima che tutti si alzino da tavola e lo fa sorridendo, senza chiedere aiuto. Di chi ti aspetta al tavolo e per te ha già ordinato una birra. Di chi paga il conto mentre tu sei in bagno a lavare le mani.
Di chi, con gli occhi è capace di abbracciare baciare e sfiorare. Di chi è costretto a guardarsi i tramonti da solo. Di chi non ha tempo però il tempo lo trova. Delle persone che in macchina si tengono per mano come se il vento dai finestrini potesse farle volare via.
Di chi beve non per dimenticare ma per ricordare. Di chi si spettina oggi di sogni, di vita e di poesia perché domani potrebbe essere tardi. Di chi dorme abbracciato sui treni. Di chi dice: ho visto un posto meraviglioso e ti ci devo portare. Di chi ha capito almeno una volta nella vita che le persone non cercano amore per essere cambiate ma solo e soltanto per essere amate. Di chi non pecca di superficialità e invece di chiederti come stai ti chiede se sei felice.
Mi innamoro di chi si trova a suo agio nei piccoli attimi di bellezza. Mi innamoro di chi pratica gentilezza con quello che ha che può essere poco che può essere niente. Mi innamoro di quelli invisibili di quelli che nessuno vede. Io credo in loro. In quelli che nessuno nota. In quelli in cui nessuno crede... - Andrew Faber
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Nell’aria bruciata d’agosto, si è alzata una nuvola di polvere sottile, ha invaso il piazzale, sul quale mi sono affacciato tante volte. Bastava la voce dell’altoparlante, con quegli inconfondibili accenti, per farmi sentire che ero arrivato a casa.
Adesso la telecamera scopre l’orologio, con le lancette ferme sui numeri romani: le dieci e venticinque. Un attimo, e molti destini si sono compiuti. Ascolto le frasi che sembrano monotone, ma sono sgomente, di Filippini, il cronista della TV, costretto a raccontare qualcosa che si vede, a spiegare ragioni, motivi che non si sanno: lo conosco da tanti anni, e immagino la sua pena. Dice: «Tra le vittime, c’è il corpo di una bambina».
Mi vengono in mente le pagine di una lettura giovanile, un romanzo di Thornton Wilder, «Il ponte di San Louis Rey», c’era una diligenza che passava su un viadotto, e qualcosa cedeva, precipitavano tutti nel fiume, e Wilder immaginava le loro storie, chi erano, che cosa furono.
Quell’atrio, quelle pensiline, il sottopassaggio, il caffè, le sale d’aspetto che odorano di segatura, e nei mesi invernali di bucce d’arancio, mi sono consuete da sempre: con la cassiera gentile, il ferroviere che ha la striscia azzurra sulla manica, che assegna i posti, e mentre attendiamo mi racconta le sue faccende, quelle del suocero tedesco che vuol bere e di sua moglie che dice di no, e la giornalaia, che scherza: «Ma come fa a leggere tutta questa roba?», e vorrei sapere qualcosa, che ne è stato di loro, e li penso, ma non so pregare.
Si mescolano i ricordi: le partenze dell’infanzia per le colonie marine dell’Adriatico, i primi distacchi, e c’erano ancora le locomotive che sbuffavano, i viaggi verso Porretta per andare dai nonni, e le gallerie si riempivano di faville, e bisognava chiudere i finestrini, e una mattina, incolonnato, mi avviai da qui al battaglione universitario, perché c’era la guerra.
Ritornano, con le mie, le vicende della stazione: quando, praticante al «Carlino», passavo di notte al Commissariato per sapere che cos’era capitato, perché è come stare al Grand Hotel, ma molto, molto più vasto, gente che va, gente che viene, e qualcuno su quei marciapiedi ha vissuto la sua più forte avventura: incontri con l’amore, incontri con la morte.
Passavano i treni oscurati che portavano i prigionieri dall’Africa, che gambe magre avevano gli inglesi, scendevano le tradotte di Hitler che andavano a prendere posizione nelle coste del Sud, e conobbi una Fraulein bionda in divisa da infermiera alla fontanella, riempiva borracce, ci mettemmo a parlare, chissà più come si chiamava, com’è andata a finire. Venne l’8 settembre, e davanti all’ingresso, dove in queste ore parcheggiano le autoambulanze, si piazzò un carro armato di Wehrmacht; catturavano i nostri soldati, e li portavano verso lo stadio, che allora si chiamava Littoriale. Un bersagliere cercò di scappare, ma una raffica lo fulminò; c’era una bimbetta che aveva in mano la bottiglia del latte, le scivolò via, e sull’asfalto rimase, con quell’uomo dalle braccia spalancate, una chiazza biancastra. Cominciarono le incursioni dei «liberators», e volevano sganciare su quei binari lucidi che univano ancora in qualche modo l’Italia, ma colpirono gli alberghi di fronte, qualche scambio, i palazzi attorno, le bombe caddero dappertutto, e vidi una signora con gli occhialetti d’oro, immobile, composta, seduta su un taxi, teneva accanto una bambola, pareva che dormisse, e l’autista aveva la testa abbandonata sul volante.
«Stazione di Bologna», dice una voce che sa di Lambrusco e di nebbia, di calure e di stoppie, di passione per la libertà e per la vita, quando un convoglio frena, quando un locomotore si avvia. Per i viaggiatori è un riferimento, per me un’emozione. Ecco perché mi pesa scrivere queste righe, non è vero che il mestiere ti libera dalla tristezza e dalla collera, in quella facciata devastata dallo scoppio io ritrovo tanti capitoli dell’esistenza dei mici.
«Stazione di Bologna»: quante trame sono cominciate e si sono chiuse sotto queste arcate di ferro. Quanti sono stati uccisi dallo scoppio, o travolti dalle macerie: cinquanta, sessanta, chissà? Credere al destino, una caldaia che esplode, un controllo che non funziona, una macchina che impazzisce, qualcuno che ha sbagliato, Dio che si vendica della nostra miseria, e anche l’innocente paga? Anche quei ragazzi nati in Germania che erano passati di qui per una vacanza felice, ed attesa, il premio ai buoni studi o al lavoro, una promessa mantenuta, un sogno poetico realizzato: «Kennst Du das Land, wo die Zitronen bluhen?», lo conosci questo bellissimo e tremendo Paese dove fioriscono i limoni e gli aranci, i rapimenti e gli attentati, la cortesia e il delitto, dovevano pagare anche loro? Forse era meglio vagheggiarlo nella fantasia. Ci sono genitori che cercano i figli; dov’erano diretti? Perché si sono fermati qui? Da quanto tempo favoleggiavano questa trasferta? E le signorine del telefono, già, che cosa è successo alle ragazze dal grembiule nero che stavano dietro il banco dell’interurbana: chi era in servizio? Qualcuna aveva saltato il turno? Che cosa gioca il caso?
Poi, l’altra ipotesi, quella dello sconosciuto che deposita la scatola di latta, che lascia tra le valigie o abbandonata in un angolo, magari per celebrare un anniversario che ha un nome tetro, «Italicus», perché vuol dire strage e un tempo «Italicus» significava il duomo di Bolsena, le sirene dei mari siciliani, i pini di Roma, il sorriso delle donne, l’ospitalità, il gusto di vivere di un popolo. Non mi pare possibile, perché sarebbe scattato l’inizio di un incubo, la fine di un’illusione, perché fin lì, pensavamo, non sarebbero mai arrivati.
«Stazione di Bologna», come un appuntamento con la distruzione, non come una tappa per una vacanza felice, per un incontro atteso, per una ragione quotidiana: gli affari, i commerci, le visite, lo svago. Come si fa ad ammazzare quelle turiste straniere, grosse e lentigginose, che vedono in ognuno di noi un discendente di Romeo, un cugino di Caruso, un eroe del melodramma e della leggenda, che si inebriano di cattivi moscati e di sole, di brutte canzoni? Come si fa ad ammazzare quei compaesani piccoli e neri, che emigrano per il pane e si fermano per comperare un piatto di lasagne, che consumano seduti sulle borse di plastica? Come si fa ad ammazzare quei bambini in sandali e in canottiera che aspettano impazienti, nella calura devastante, la coca cola e il panino e non sanno che nel sotterraneo, non lo sa nessuno, c’è un orologio che scandisce in quei minuti la loro sorte?
Vorrei vedere che cosa contengono quei portafogli abbandonati su un tavolo all’istituto di medicina legale: non tanto i soldi, di sicuro, patenti, anche dei santini, una lettera ripiegata e consumata, delle fotografie di facce qualunque, di quelle che si vedono esposte nelle vetrine degli «studi» di provincia: facce anonime, facce umane, facce da tutti i giorni. Dicono i versi di un vero poeta, che è nato da queste parti e si chiama Tonino Guerra: «A me la morte / mi fa morire di paura / perché morendo si lasciano troppe cose che poi non si vedranno mai più: / gli amici, quelli della famiglia, i fiori / dei viali che hanno quell’odore / e tutta la gente che ho incontrato / anche una volta sola». Sono facce che testimoniano questa angoscia, ma nessuno ha potuto salvarle.
«Stazione di Bologna». D’ora in poi non ascolteremo più l’annuncio con i sentimenti di una volta; evocava qualcosa di allegro e di epicureo, tetti rossi e mura antiche, civiltà dei libri, senso di giustizia, ironia, rispetto degli altri, massi, anche la tavola e il letto, il culto del Cielo e il culto per le buone cose della Terra.
Ora, ha sapore di agguato e di tritolo. Perché il mondo è cambiato e in peggio: i figli degli anarchici emiliani li battezzavano Fiero e Ordigno, quelli dei repubblicani Ellero e Mentana, quelli dei socialisti Oriente e Vindice, quelli dei fascisti Ardito e Dalmazia, una gli insegnavano a discutere a mensa imbandita. Si picchiavano anche, si sparavano, talvolta, ma il loro ideale era pulito e non contemplava l’agguato: Caino ed Erode non figuravano tra i loro maestri.
«Stazione di Bologna»: si può anche partire, per un viaggio senza ritorno.
“Enzo Biagi scrisse il 2 agosto 1980 sulla strage alla stazione di Bologna sul Corriere della Sera.”
#stragedibologna #2agosto1980 #pernondimenticare #diariodiunferroviere
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Mi innamoro
dei piccoli di gesti.
Silenziosi, di cui nessuno si accorge.
Che non amano fare rumore.
Che non amano farsi scoprire.
Di un amico che si avvicina al tuo orecchio
quando vede che all’improvviso sparisci
e ti sussura un semplice “ehi...”
Di chi inizia a sparecchiare
prima che tutti si alzino da tavola
e lo fa sorridendo, senza chiedere aiuto.
Di chi ti aspetta al tavolo
e per te ha già ordinato una birra.
Di chi paga il conto
mentre tu sei in bagno a lavare le mani.
Di chi, con gli occhi
è capace di abbracciare
baciare
e sfiorare.
Di chi è costretto
a guardarsi i tramonti da solo.
Di chi non ha tempo
però il tempo lo trova.
Delle persone che in macchina
si tengono per mano
come se il vento dai finestrini
potesse farle volare via.
Di chi beve non per dimenticare
ma per ricordare.
Di chi si spettina oggi
di sogni, di vita e di poesia
perché domani potrebbe essere tardi.
Di chi dorme abbracciato sui treni.
Di chi dice: ho visto un posto meraviglioso
e ti ci devo portare.
Di chi ha capito almeno una volta
nella vita
che le persone non cercano amore
per essere cambiate
ma solo e soltanto per essere amate.
Di chi non pecca di superficialità
e invece di chiederti come stai
ti chiede se sei felice.
Mi innamoro di chi si trova a suo agio
nei piccoli attimi di bellezza.
Mi innamoro di chi pratica gentilezza
con quello che ha
che può essere poco
che può essere niente.
Mi innamoro di quelli invisibili
di quelli che nessuno vede.
Io credo in loro.
In quelli che nessuno nota.
In quelli in cui nessuno crede.
Andrew Farber
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