#diversamente dai giapponesi? fra. Fra.
Explore tagged Tumblr posts
Text
le recensioni di goodreads mi fanno passare la speranza nell'umanità dio mio ma come si fa
#BOHHH ma a me non verrebbe mai in mente di scrivere una roba del genere ma che critica è#se non hai mai fatto una lezione di letteratura puoi almeno non scrivere recensioni. mi sembra il minimo#a#come quella straordinaria recensione di blu quasi trasparente che dice tipo. ah quindi il punto è che gli americani fanno le orge#diversamente dai giapponesi? fra. Fra.
2 notes
·
View notes
Text
Il ferro nel braccio
L’animazione giapponese si è misurata anche con il genere western. E parlo di quello puro, non delle contaminazioni effettuate per esempio nell’anime robotico Gordian. Credo – ma non ne sono del tutto sicuro – che Sam ragazzo del West sia l’unica serie di questo tipo degli anni Ottanta e Novanta. O per lo meno l’unica che sia approdata sui nostri schermi televisivi. I 52 episodi che lo compongono non sono autoconclusivi, come invece succede in altri anime. Raccontano una vicenda con tanto di inizio, svolgimento e conclusione. L’ambientazione metropolitana lascia il posto al buon vecchio Far West. Siamo di fronte alla tipica storia di cowboy. Il protagonista è il figlio di un giapponese e di un’indiana. Il che potrebbe creargli qualche problema di tipo razziale tra gli yankee. All’inizio della serie, Sam è piuttosto piccolo. Apparentemente orfano di entrambi i genitori, vive in mezzo a un gruppo di minatori che lo hanno adottato e si prendono cura di lui. La tranquillità dura poco: viene rapito dai Wingate, tre fratelli banditi uno più tosto dell’altro, che lo allevano per farne un vero furfante. Gliene combinano di tutti i colori. E non si tratta del solito rapporto fra genitore e figlio in cui il primo si comporta con il secondo come un aguzzino “per il suo bene”. Questi sono tre sadici che trattano male il ragazzo perché non sono capaci di fare diversamente. Durante questo durissimo ma anomalo processo di formazione, Sam incontra un uomo che gli insegna a combattere con la tecnica del judo. Sfrutterà quanto ha imparato per difendersi dai soprusi dei Wingate. È solo il primo passo del suo affrancamento. Ben presto abbandonerà i tre delinquenti. Qui termina la prima fase dell’anime, che di fatto narra la maturazione del protagonista, o meglio il suo passaggio da una condizione a un’altra. Sam parte dal basso, cioè da uno status di povertà e disagio, e letamente sale la china. Ovviamente, le difficoltà non sono per nulla finite. Il protagonista si scontra con la diffidenza altrui: oltre ad essere un “diverso” (metà giapponese e metà indiano), ha vissuto per molto tempo con una banda di fuorilegge. Deve riscattare la vita condotta fino a quel momento e guadagnarsi la fiducia della gente. Ma lui ha lo spirito del guerriero: combatte solo quando è strettamente necessario e si schiera sempre dalla parte di chi non si può difendere. Oltretutto può contare su un’abilità a dir poco irreale. Maneggia la pistola come pochi, pur essendo tanto giovane. Ed è capace di numeri che nemmneo al circo, sebbene non raggiunga le esilaranti assurdità che hanno reso famoso il Cocco Bill di Jacovitti. Finisce a vivere presso un ricco mandriano che ha un figlio e una figlia. Inizia così un periodo relativamente sereno (qualche seccatura cui far fronte c’è sempre, non crediate). Che termina quando Sam fa una scoperta fondamentale per l’economia della storia: l’uomo che tempo addietro – cioè quando viveva con i fratelli Wingate – gli ha insegnato judo era suo padre. È, insomma, il tema tipico dell’orfano che non sa d’avere uno dei genitori ancora in vita. Non può più restare nel ranch dove, peraltro, si trova bene perché può contare su rispetto e affetto. Da questo momento lo scopo della sua esistenza – e, di riflesso, della serie – è ritrovare il babbo superstite. Proprio su questo si incentra la seconda parte dell’anime. Sam comincia a vagare per tutta l’America. Ritroviamo un tema presente in moltissime serie animate giapponesi: il viaggio alla ricerca di qualcuno, già utilizzato in Judo boy e in molti altri cartoni animati. Oltretutto, il cammino di chi si sta cercando s’incrocia più volte, ad insaputa degli interessati, che non sanno d’essere così vicini. Lo schema narrativo di ogni episodio prevede l’incontro con una persona in difficoltà. C’è di mezzo il solito “cattivo” che si comporta da prepotente. Il senso di giustizia che anima il protagonista, lo spinge a impegnarsi a favore del più debole, di cui diventa amico. Una volta risolta la situazione grazie alla propria abilità di pistolero, Sam riprende il suo viaggio, con la promessa di tornare in un prossimo futuro. Sarebbe forse inutile dire che alla fine padre e figlio si riuniscono – durante una battaglia, fra l’altro – ma lo dico ugualmente. Come sempre, lo scopo prefissato viene raggiunto.
3 notes
·
View notes
Text
Architettura senza architetti
La storia ricorda i grandi nomi e le loro opere, basti pensare ad architetti come Antoni Gaudì, Filippo Juvarra o Christopher Wren che hanno radicalmente trasformato i luoghi in cui hanno operato, tanto da non riuscire ad immaginare queste città senza le opere di questi artisti. Barcellona non sarebbe più la stessa senza Parco Güell o la Sagrada Famìlia, lo stesso dicasi per Torino senza le opere dell’architetto sabaudo, e Londra sarebbe stata ricostruita diversamente senza Wren, e così via. Una domanda a questo punto sorge spontanea, ma prima di loro, prima dei grandi architetti, dei costruttori e delle grandi opere, prima di una codifica delle regole architettoniche, prima di Vitruvio e del De Architectura, cosa c’era? Prima di tutto ciò esisteva un’architettura anonima, spontanea, figlia di una necessità primordiale: la creazione di un rifugio. Questo tipo di costruzioni avevano il vantaggio di sfruttare ciò che offriva il territorio creando un habitat ideale perché si adattavano alle caratteristiche climatiche e geografiche della regione. Non a caso le grandi costruzioni in legno si trovano nelle regioni ricche di foreste e quindi di legname, come il nord Europa, mentre nelle aeree mediterranee le prime abitazioni umane erano rifugi scavati nella pietra, ma l’esempio, forse, più significativo è l’igloo che per sua natura è adatto solo alle regioni fredde, luoghi in cui le temperature sono così basse da avere a disposizione grossi quantitativi di ghiaccio e di neve. Un’analisi dettagliata dei diversi sistemi adottati nelle diverse aree del pianeta risulta quindi indispensabile per capire quali sono i materiali adoperati, quali le tecniche costruttive e ovviamente i pro ed i conto di ognuna. Alle origini l’uomo risolse il problema dell’abitare solo con ciò che offriva il territorio, pensiamo alle strutture a cruck della Gran Bretagna o alle tipiche case giapponesi, entrambe possibili perché le regioni citate erano ricche di legname. A dimostrazione di ciò basti pensare che Enrico VIII proibì la realizzazione di edifici a cruck quando il legname iniziò a scarseggiare. Infatti, per costruire questo tipo di struttura occorre un intero tronco d’albero che deve essere tagliato verticalmente in due. Le due metà devono essere disposte in modo tale da formare un triangolo la cui cima è fissata con un tirante. Una serie di queste strutture vengono erette ad intervalli regolari unite da una trave di colmo mentre tronchi più piccoli vengono usati come controventi. Il tutto viene poi ricoperto da zolle d’erba, argilla o pietre. In Giappone, invece, il tipo più comune di casa di città è la machiya. Gli esempi migliori si trovano a Kyoto e per la maggior parte sono edifici a schiera lunghi e stretti arricchiti con diversi giardini. La struttura è interamente lignea, le pareti sono ricoperte da bambù intrecciato, il tetto da tegole chiamate kawara mentre il pavimento è fatto di tatami cioè stuoie di giunco intrecciato. Nelle zone mediterranee, invece, proprio per la scarsità di foreste le abitazioni tipiche sono ricavate nella roccia come avviene a Matera, che è l’esempio più rappresentativo, ma siti simili si possono trovare anche in Spagna in Andalusia, in Turchia in Cappadocia, oppure, sempre in Italia, in Calabria: la zona di Brancaleone è ricca di caverne usate come abitazioni fino al secolo scorso. Gli stessi trulli pugliesi sono abitazioni di pietra calcarea realizzati con tecniche costruttive preistoriche. I Sassi di Matera sono l’esempio più straordinario di insediamento in grotte che ci sia in Europa e dal 1993 sono stati dichiarati patrimonio dell’umanità dall’Unesco e definiti come un paesaggio culturale. Scavati e costruiti a ridosso della Gravina di Matera sono un eccezionale esempio di ciò che si può fare con le risorse fornite dalla natura senza stravolgere completamente ciò che ci circonda. Sempre Italia si possono trovare altre abitazioni in grotta ormai del tutto abbandonate come nel caso della Calabria mentre in Spagna si è riuscito a dare nuova vita ristrutturando le case-caverne dell’Andalusia che sono ormai un polo turistico di un certo interesse. Tipiche della Cappadocia sono invece i camini delle fate straordinarie conformazioni geologiche trasformate in abitazioni durante il periodo paleocristiano quando a cause delle persecuzioni religiose si aveva necessità di nascondersi. Oggi sono state riscoperte in questa regione trentasei città sotterranee, fra queste la maggiore è Derinkuyu, un’area di 4 km2 che si sviluppa su sette livelli in grado di ospitare anche 20.000 persone. Nella roccia furono pure scavati monasteri, chiese e cappelle cristiane oltre che tutta una serie di strutture di servizio quali cisterne, pozzi, cantine, stalle e arnie, più tutta una serie di tunnel per collegare queste città. In altre regioni del mondo le antiche abitazioni scavate nel terreno hanno subito un’evoluzione come nel caso dell’edilizia in adobe del New Mexico cioè alloggi di un solo piano realizzati con fango essiccato, pietre e malta, privi di finestre e con copertura piana. Vanno, poi, considerate le abitazioni dei popoli nomadi che a causa delle avverse condizioni climatiche hanno realizzato dimore più precarie ma di più facile realizzazione, in questo caso è d’obbligo citare i teepee dei nativi americani e le tende nere dei beduini. Il teepee è la forma classica delle abitazioni delle tribù del nord America e per il cui montaggio è necessario legare tre pali in modo che alla base si formi un triangolo, a cui fissare una decina di altri pali, ad intervalli regolari, in modo da formare un cerchio. A questo punto è possibile inserire la copertura fatta di pelli o tela e il tutto viene ancorato al terreno con del picchetti. La principale innovazione, rispetto ad altri alloggi momentanei, è la possibilità di accendere un focolare all’interno grazie all’apertura in cima che permette la fuoriuscita del fumo. La tenda beduina, invece, è un intreccio variabile di pali fissati al terreno con picchetti e funi di canapa, il tutto coperto da teli realizzati con lana di capra. La zona d’ingresso è aperta su di un lato ed è orientata in senso opposto al vento e può essere coperta da teli durante le fredde notti desertiche. In caso di necessità, poi, i teli laterali si possono arrotolare per migliorare la ventilazione. Quando, poi, si parla di architettura spontanea moderna o contemporanea non deve essere vista come abusivismo edilizio, come spesso avviene delle grandi città del sud del mondo, come le favelas basiliane o gli insediamenti di Dharavi e Manila, ma come riuso di risorse, siano esse aree destinate all’abbandono, come ex zone industriali ormai in disuso o materiali di scarto. Ci sono molti esempi di muri ed edifici realizzati con materiali di riciclo quali vecchi copertoni di auto e bottiglie come il tempio di bottiglie il Wat Pa Maha in Thailandia. Le favelas brasiliane, gli insediamenti di Dharavi e Manila sono strutture abusive, delle vere e proprie baraccopoli, realizzate usando materiali di scarto e rifiuti urbani, privi di acqua corrente, fogne ed elettricità, ma nonostante ciò sono spesso più sicure di molti edifici moderni di fronte a disastri di tipo ambientale. Le favelas di Rio de Janeiro sono composte da migliaia di fragili baracche erette su palafitte per evitare che durante le piogge estive vengano travolte dall’acqua come spesso accade alle abitazioni convenzionali. Inoltre, nonostante i tentativi del governo di realizzare alloggi migliori, gli abitanti stessi preferiscono questo genere di abitazioni sia per motivi economici che sociali. Basti pensare ai tentativi fatti nelle Filippine per risolvere i problemi di Manila tanto che in The Evolution of Informality as a Dominant Pattern in Philippine Cities si prende in considerazione l’idea di studiare questi insediamenti per trovare una soluzione più idonea all’idea dell’abitare cercando di distaccarsi però dal concetto di abitazione classica, prendendo il meglio da questi alloggi apparentemente precari che però ospitano milioni di persone. In questi contesti per quanto disagiati, privi di comodità e di condizioni igieniche ottimali, si può notare l’inventiva umana, in cui ogni oggetto può essere riutilizzato e diventare utile, in cui si riscoprono sistemi semplici e primordiali, come appunto le palafitte, per risolvere problemi tipici del territorio in cui si abita. Questo perché il xx secolo ed il movimento moderno ci hanno insegnato a rompere con il passato e con le regole classiche, quindi troppo spesso gli edifici di nuova costruzione risultano troppo standardizzati e fuori contesto mentre ora è arrivato il momento di fare un passo indietro e di attingere dal repertorio storico. Troppo a lungo si è pensato di aver trovato una soluzione per l’abitare che fosse sempre valida, in qualunque tempo ed in qualunque luogo. Le tecnologie che abbiamo a disposizione, infatti, ci permettono di costruire qualunque cosa in qualunque posto, ma ci sono dei limiti dettati dai costi, in termini di risorse e di denaro; realizzare invece opere che abbiano un basso impatto ambientale, che utilizzino materiali reperibili in loco, con tecniche costruttive idonee significherebbe maggiore risparmio, un miglior confort e maggiore rispetto per l’ambiente. Vale la pena quindi, rivalutare il concetto di earthship, una nuova forma di architettura che unisce elementi di edilizia spontanea con le nuove tecnologie che si hanno a disposizione con l’unico fine di creare edifici il più possibile in armonia con l’ecosistema, permettendo così alle future generazioni di usufruire delle stesse risorse di cui abbiamo goduto fin ora. Infatti, quando si parla di earthship si parla di costruzioni realizzate con materiali riciclati e naturali che, dal punto di vista energetico, siano in grado di sfruttare le fonti rinnovabili e che conservino e riutilizzino le acque meteoriche. Difatti ogni anno nel mondo si producono 4 miliardi di tonnellate di rifiuti, pari a 650 chili per abitante. L’Italia è responsabile di 32,4 milioni di tonnellate di rifiuti urbani, di 36,6 milioni di rifiuti industriali e di 52,3 milioni provenienti dal settore edile. Il 42% di questi rifiuti finisce negli impianti di riciclaggio. Se si riuscissero ad ottimizzare queste cifre si potrebbe pensare di utilizzare questi materiali nel settore edile diminuendo la produzione di nuovi materiali, evitando, quindi, gli sprechi. A tutto ciò andrebbe poi aggiunto l’utilizzo di materiali naturali quali il legno, i materiali lapidei, l’argilla, il bambù, il sughero e tanti altri, e allo stesso tempo la riqualifica di quartieri o edifici abbandonati riducendo così il tasso di inquinamento delle nostre città.
Lasciando a voi le considerazioni finali io assaporo il mio tè fortemente speziato invitandovi a viaggiare sempre ogni qual volta ne abbiate la possibilità.
Stefania.
May J., Reid A., Architettura senza architetti, guida alle costruzioni spontanee di tutto il mondo, Rizzoli, Milano, 2010
#books#architettura senza architetti#architecture without architect#May J. Red#Architettura spontanea#non-pedigreed architecture#architettura nel mondo#earthship#materiali naturali#movimento moderno#favelas#teepee#adobe#camini delle fate#case-caverne#trulli#paesaggio culturale#sassi di matera#grotte di barcaleone#andalusia#cappadocia#machiya#cruck#igloo#architecture
0 notes
Text
Destra sinistra sinistra destra
Nei 26 episodi di Jenny la tennista (o meglio Ace o nerae), serie del 1973, si scopre che una cosa sulle donne giapponesi. Pur essendo creature timide, impacciate e riservate, quando devono svolgere una qualsiasi attività professionale, si trasformano. Diventano persone efficienti e precise che eseguono il compito loro affidato con estrema professionalità e precisione. Allo stesso modo, quando si dedicano a un’attività sportiva, accantonano il loro tradizionale riserbo e sfoderano una grinta e una determinazione che uno proprio non si aspetta. E superiore, forse, a quelle di cui è capace un uomo. Jenny Nolan (il cui vero nome – Hiromi Oka – è stato, tanto per cambiare, occidentalizzato) ha quindici anni. Frequenta il Liceo Nishi, famoso per la scuola di tennis, disciplina che lei adora. L’unico problema è che non ha la minima fiducia nelle proprie capacità. Il suo idolo è la senpai Reika, detta anche Madama Butterfly per via della grazia con cui gioca: se il campo da gioco fosse un giardino, infatti, lei sarebbe come una farfalla. È la giocatrice più forte della scuola. Tratta la protagonista con la bonaria condiscendenza tipica di chi è consapevole d’essere un gradino sopra gli altri. Ma è sempre pronta a darle un minimo di sostegno. Classica ambientazione scolastica, insomma. Il primo episodio serve a passare in rassegna i personaggi più importanti. Oltre a Reika, conosciamo Mary, la più cara amica di Jenny, esuberante e vivace. Evelyn, invece, è la bastarda della situazione. Lo capisci dall’espressione cattiva e severa degli occhi. Non ha un buon carattere. Darà parecchio filo da torcere alla Nolan. Non dimentichiamo Teddy, il campione della squadra maschile. Jenny ha una cotta per lui, ma non trova il coraggio di farsi avanti. Fondamentale la presenza dell’ex campione Jeremy ‘O Connors, incaricato di occuparsi della squadra femminile. È stato nominato allenatore della squadra femminile. Tipico esempio di allenatore/sensei, duro e inflessibile, capace di inventarsi chissà cosa “per il tuo bene”. Il suo arrivo genera una situazione di squilibrio. Tanto per gradire, batte Reika, umiliandola. Poi, non contento, segnala Jenny per la partecipazione al torneo regionale. Gli è bastato, infatti, guardarla per intuire le sue grandi potenzialità. Da questo momento, per la protagonista comincia l’inferno. Si ritrova circondata dall’ostilità generale. Le cattiverie e le insinuazioni sul suo conto si sprecano, soprattutto da parte della crudele Evelyn, esclusa per fare posto a lei. Le giocatrici più anziane non sono per nulla d’accordo con la decisione dell’allenatore, il quale si guarda bene dal giustificarla. Dichiara soltanto che, secondo lui, in ogni disciplina sportiva le cose più importanti siano due: la determinazione e la capacità di concentrazione. Intanto Jenny si ritrova isolata. Però stringe i denti e resiste: «Devo dimostrare a me stessa e agli altri che posso anch’io diventare una giocatrice professionista!». La partecipazione al torneo è complicata da un crampo, ma non è compromessa. A quel punto, Evelyn chiede di poterla affrontare in un incontro. Vuole capire perché l’allenatore l’ha preferita a lei. La vincitrice andrà alle semifinali. Sorpresa: vince Jenny. La sua avversaria, infatti, pensa più a mettersi in mostra che a giocare, mentre lei rimane concentrata. I suoi miglioramenti sono netti e visibili. E le sue compagne sono costrette a ricredersi. Jeremy aveva visto giusto. La competizione non dà grandi soddisfazioni a Jenny. Certo, batte la prima giocatrice, una certa Peters. Dopo, però, le tocca la fortissima Rosy ‘O Connors (il cui cognome dovrebbe dirci molto più di qualcosa) che la straccia. Il morale le finisce sotto la suola delle scarpe, ma pensa Jeremy a motivarla: «Ed è per questo che dobbiamo allenarci tanto. Ognuno è solo quando è in campo». Lo sport richiede il massimo impegno, dentro il campo e fuori: «Puoi contare solo sulle tue capacità, e quindi devi sfruttarle a fondo». Perseverando, potrebbe anche riuscire a vincere un torneo. Saranno le parole dell’allenatore, una maggiore fiducia in se stessa… fatto sta che Jenny comincia ad amare il tennis. E questo nonostante le perfide macchinazioni di Evelyn, che falliscono tutte, grazie anche a Reika. Intanto, la simpatia fra Teddy e la protagonista sembra crescere. Tutto bene, allora? Magari. Durante un torneo regionale, viene organizzato un singolare contro Madama Farfalla. La quale, com’è prevedibile, vince, ma prende paura. Sì, perché deve faticare più del previsto. Il primo set è una passeggiata, ma il secondo no. Jenny ce la mette tutta, e perde con onore, memore forse delle parole di Rosy ‘O Connors: «Quando siamo in campo non c’è alcuna differenza fra un avversario e l’altro: siamo delle tenniste che credono in quello che fanno, e chiunque sia l’avversario, dobbiamo dare il meglio di noi stesse». Intimorita dai suoi progressi, Reika la ricatta: o la mia amicizia, o il tennis. La protagonista, stanca di malintesi, pettegolezzi e malignità, comunica a Jeremy di voler mollare tutto. L’allenatore prende atto della decisione, anche perché intuisce che durerà lo spazio di appena un episodio. Ci pensa il buon Teddy, infatti, a farle cambiare idea. Per fortuna, durante un altro torneo, questa volta distrettuale, Jenny batte una tennista fortissima, diventando così molto popolare. L’episodio numero 13 è fondamentale, e per tre ragioni. La prima è che il Consiglio della Lega Scolastica per il Tennis accetta la proposta di Jeremy di far partecipare la sua protetta alle selezioni nazionali. La seconda è che Evelyn non potrà più giocare a tennis. I muscoli del braccio destro si stanno atrofizzando. Per la ragazza è uno shock terribile. Forse è per questo che cambia radicalmente il suo atteggiamento nei confronti di Jenny: ne riconosce il valore e cerca di aiutarla con i suoi consigli e la sua esperienza. La terza è che per la protagonista inizia la fase del doppio. Alla fine del quattordicesimo episodio, invece, ci piazzano lì una Rivelazione che, tutto sommato, tanto sorprendente non è: Rosy ‘O Connors e Jeremy sono fratelli. Non della stessa madre, però. Una rivelazione che verrà fatta molto più avanti. Torniamo alla novità del doppio. La coppia di punta è formata da Jenny e Reika, che non è molto d’accordo. Oltretutto, la sua compagna si rivela un disastro. Al punto che si rifiuta di giocare con lei. Come se non bastasse, Jeremy minaccia addirittura di toglierla dalla squadra. L’ennesimo momento difficile, insomma. Ma il doppio è importantissimo, perché insegna il gioco di squadra. È «essere in due, ma contemporaneamente una sola persona». Una è la mano destra; l’altra, la mano sinistra. Ognuna deve pensare come l’altra. Per sviluppare l’affiatamento, però, è necessaria la collaborazione di entrambe. Il che non avviene subito, perché durante il primo incontro Madama Farfalla gioca come se Jenny non esistesse, impedendole di toccare palla. Vorrebbe vincere da sola. Le cose si mettono male: le avversarie hanno una tecnica particolare: il cosiddetto Servizio Tornado, un colpo assurdo dagli effetti devastanti. Durante l’intervallo, la campionessa ragiona e decide finalmente di aiutare la compagna. La coppia si comporta bene, e vince incontro dopo incontro, arrivando in finale. A insaporire il match con un pizzico di pepe, interviene una complicazione. Reika si fa male al braccio destro per colpa di un incidente automobilistico. Ma non pensa nemmeno a ritirarsi. Gioca nonostante l’infortunio. Naturalmente, l’altra squadra se ne accorge e concentra gli attacchi su di lei. Ne viene fuori un’autentica battaglia dalla quale sono Jenny e Reika ad uscire vittoriose (e stravolte). Gli ultimi quattro episodi grondano avvenimenti. Nonostante le sue condizioni, Evelyn chiede e ottiene di poter disputare l’incontro di addio al tennis. Intanto, Teddy dichiara il proprio amore a Jenny, che si sente al settimo cielo. Ci pensa Jeremy a raffreddare l’entusiasmo della ragazza, imponendole un aut aut: o il tennis o l’amore. Non è ancora il momento di essere innamorati. Lo sport, in questi anime, diventa un’esperienza totalizzante, che deve escludere qualunque altra cosa: «Se c’è qualcos’altro che ti interessa, oltre al tennis, io te lo toglierò, te lo farò dimenticare, qualsiasi cosa sia». I sentimenti sono visti come una pericolosa distrazione. Jenny deve tenere alta la concentrazione e pensare soltanto a giocare. Lo scopo di Jeremy è portarla ai vertici mondiali. Per questo chiede a Teddy di aspettarla. I due, incredibilmente, accettano. Si comincia a intuire che fra allenatore e allieva esista un legame non dichiarato, sicuramente più profondo di quello esistente fra maestro e pupillo. Diversamente non si capisce la gelosia di Jeremy. Dopo un’estate trascorsa ad allenarsi duramente in un centro sportivo, Jenny deve superare l’ennesimo esame. I membri della commissione incaricata di scegliere gli atleti della squadra nazionale, infatti, sono molto indecisi su di lei. Le propongono allora una sfida con Madame Butterfly. Se vince, il posto è suo. L’incontro è interminabile. Dura ore e ore. E trascende la propria funzione. È Jeremy stesso a commentare: «Non è più importante chi vince o chi perde, ma l’impegno che le due ragazze ci hanno messo». Quasi a voler sottolineare una volta di più l’infaticabile spirito battagliero della protagonista. La cui (scontata) vittoria costituisce la sua consacrazione. Il finale sembra però monco. Si chiude – o meglio, si apre – sul ritorno della ragazza in città insieme agli altri protagonisti. Come nel caso di Rocky Joe, la vicenda prosegue dopo quindici anni. Nel 1988, infatti, realizzano un seguito. Anzi, due: Ace o nerae 2 (13 OAV) e Ace o nerae Final stage (12 OAV). Mediaset li trasmette – non senza applicarvi un paio delle sue famigerate mutilazioni – come fossero un’unica serie. La differenza con i 26 episodi del 1973 si nota subito: disegni e animazione sono di gran lunga superiori. Sono passati tre anni dalla massacrante sfida contro Reika. Jenny è una tennista affermata, finalmente consapevole dei propri mezzi. Vince e convince. Ha conseguito il titolo di campionessa della categoria juniores. All’inizio, la voce narrante di Jeremy anticipa quanto accadrà nel secondo episodio. Soffre di una gravissima forma di leucemia. Non ha scampo. È solo una questione di tempo. Prima che sia troppo tardi, chiama a sé Teddy, cui chiede di badare all’amatissima allieva, e il suo grande amico Robin Andrews, ex tennista diventato monaco buddista. Spetterà a lui seguire la ragazza quando non ci sarà più. Naturalmente Jenny è all’oscuro di tutto. Parte insieme a Reika, Teddy e Norman per gli Stati Uniti, dove potrà fare esperienza. Se venisse a conoscenza delle condizioni di Jeremy, rinuncerebbe al viaggio. Tra i due, infatti, c’è qualcosa di simile all’amore. Un sentimento non del tutto dichiarato. E contraddittorio, perché nella prima serie sembrava innamorata di Teddy. Ad ogni modo, l’allenatore muore appena dopo il decollo dell’aereo. I compagni di Jenny vengono a saperlo mentre si trovano in America, e decidono di tacere. La bomba scoppia nel quinto episodio, al ritorno in Giappone. È Robin a dare la terribile notizia a Jenny. Ma chi è costui? Be’, lui e il defunto erano amicissimi e compagni di sport. Cinque anni prima degli avvenimenti narrati nella prima serie, durante un allenamento Jeremy stramazza a terra in preda a febbre e convulsioni. Sono le avvisaglie del male che lo ucciderà. La sua attività agonistica è finita. Dal canto suo, Robin, sconvolto per l’accaduto, abbandona il tennis e diventa un monaco. Torniamo a Jenny. È crisi. Nera, profonda. Distrutta dal dolore, decide di mollare lo sport che amava tanto. Arriva perfino a rifiutare il cibo. Poi si trasferisce al tempio dove si trova Robin Andrews. Un posto vale l’altro, pensa. Tanto, secondo lei non cambierà nulla. Il monaco inizia subito a usare il pugno di ferro, dimostrandosi inflessibile e severo. Deve ricostruire la ragazza dal punto di vista psicologico, aiutarla a uscire dall’abulia nella quale sta affondando. Cerca di darle una scossa: «Devi reagire, Jenny! Non perderti dietro le debolezze! Non è questo quello che ti ha insegnato Jeremy!». La spinge a lottare per continuare a vivere: «Se la morte è reale, lo è anche la vita. È una bilancia. E noi siamo il perno. Dobbiamo cercare il giusto equilibrio. Il tennis fa parte del gioco». Però non deve dimenticare il suo allenatore, colui che ha creduto nelle sue capacità. Sarebbe sbagliato: «Non devi cancellare il ricordo di Jeremy! Al contrario: devi affrontarlo! È una realtà con la quale devi vivere! Lui continua a parlare con le tue parole e a muoversi con i tuoi gesti!» Alla fine dell’ottavo episodio, Jenny decide di riprendere in mano la racchetta. E Robin –ufficialmente il suo nuovo sensei – le regala quella di Jeremy, raccontandole la storia di un ragazzo dall’infanzia difficile che ha trovato la salvezza nello sport. C’è solo un problema: bisogna ricominciare tutto da capo. La ragazza è tornata a essere quella che abbiamo conosciuto all’inizio della prima serie. È fuori forma e non crede più in se stessa. Ma il monaco non si spaventa per così poco: «La farò diventare più matura! Le rafforzerò il carattere in modo che non sia troppo fragile! Diventerà una grande giocatrice!». Grazie a lui, ritroverà la sua ragion d’essere, il sogno da realizzare: «Qualunque cosa succeda, la gente continua a vivere quando ha uno scopo, qualcosa di impegnativo a cui dedicarsi». Un concetto sul quale gli anime insistono fino allo sfinimento (dei protagonisti, naturalmente). Passo dopo passo, Jenny si riprende. Con molta fatica. Però si riprende. S’iscrive al torneo nazionale. E subito deve affrontare una tennista fuori della sua portata: la sorella di Jeremy. Il match è a senso unico, ma viene risolto da un colpo di scena: Rosy abbandona per infortunio. Si sloga un polso, a causa del durissimo allenamento cui si era sottoposta in Australia. L’avversaria successiva è Reika. L’incontro comincia nell’episodio numero tredici (che conclude il primo gruppo di OAV), ma non si capisce come vada a finire. All’inizio del quattordicesimo, infatti, tutto sembra essersi concluso. Dovrebbe avere vinto Madama Farfalla. Il condizionale è d’obbligo, perché l’esito della sfida non viene dichiarato in maniera esplicita. C’è una sorta di “cesura narrativa”, tra i due episodi. Come quando si spezza un filo e lo si riannoda a casaccio. Dando per scontate cose che non lo sono poi così tanto. Interviene un altro colpo di scena a complicare la ripresa di Jenny. Teddy è ancora innamorato di lei e glielo dice nei denti. Dopo di che, scompare. Se ne va in America, per capire quale sarà il suo futuro di tennista. La ragazza, che ha le idee sempre più confuse, non fa che pensare a lui. Con le conseguenze che possiamo facilmente immaginare. Viene iscritta alla Coppa Tokio. Perde il primo incontro. Ha l’opportunità di rientrare in gioco, grazie a un ripescaggio, ma preferisce andare in America da Teddy. Meglio non lasciare certe questioni in sospeso. Robin dapprima s’infuria, poi comprende. Vai, le dice. Risolvi quello che devi risolvere. Ne riparliamo quando torni. I due s’incontrano a New York, dopo essersi inseguiti a lungo. Al suo ritorno in Giappone, Jenny chiede perdono a Robin. Intende ricominciare da zero, e guadagnarsi nuovamente la fiducia del suo nuovo allenatore. L’occasione per il riscatto è un prestigioso torneo internazionale: la Coppa Queen 90. La ragazza affronta la nuova sfida sfoggiando una tecnica innovativa, adatta alle sue caratteristiche. Vince le semifinali. Non va altrettanto bene a Reika, che cerca di replicare il gioco di Jenny, ma esce subito. Delusa per la sconfitta, vorrebbe lasciare il tennis. È solo un momento di debolezza: alla fine ci ripensa e va in America per diventare una professionista. L’ultimo episodio vede finalmente il trionfo di Jenny. Durante la finale (ma soprattutto prima) scatta quel senso del dovere al quale nessuno di questi atleti intende sottrarsi. La vittoria è un obbligo morale nei confronti di chi è stato sconfitto, come Reika, ma soprattutto di chi ha creduto in lei, Jeremy in testa. Senza il loro sostegno, non avrebbe mai potuto farcela. Il successo – tutto sommato, inevitabile – è dedicato a quanti l’hanno appoggiata, ma anche ostacolata. La finale è sua di diritto. Se l’è sudata. Teddy arriva apposta dall’America per incitarla. Naturalmente i due si fidanzano, con la benedizione postuma del defunto allenatore, che lascia a entrambi una di quelle lettere che straziano sempre il cuore. Il tennis è un pretesto. Serve a raccontare la crescita spirituale di una ragazza la cui autostima, se non è vicina allo zero, non se ne discosta di molto. Non per nulla, Jeremy le ripete fino alla nausea «Devi avere più fiducia in te stessa». Detto questo, bisogna ammettere che, a differenza di molte altre, Jenny la tennista è una serie realistica. Non assistiamo a grandi assurdità. Le leggi della fisica sono rispettate: i “colpi speciali” non presentano particolari esagerazioni. La dilatazione spazio-temporale viene applicata con moderazione. Le dimensioni dei campi non sono poi così al di fuori della norma. E le partite, quando sono davvero lunghe, non durano più di due episodi. Il resto, però, c’è tutto: l’effetto moviola con i giocatori che sembrano galleggiare in aria; le coloratissime linee cinetiche; le palline che si deformano per effetto della velocità e per la violenza dell’impatto; le sequenze ripetute più volte… Desta qualche perplessità la decisione, da parte degli adattatori, di occidentalizzare i nomi, rendendoli inglesi. Però questi sono dettagli. Conta ben altro. La volontà di vincere impegnandosi fino in fondo: «Quando uno in campo dà il massimo, è matematico: non può fare altro che vincere». E l’incredibile spirito combattivo di ogni personaggio. Rosy dichiara: «Preferisco cadere ogni volta e poi rialzarmi che non essere mai caduta». La volontà porta a risollevarsi dopo ogni momento difficile. In questo, Jenny è ammirevole. Stringe i denti, si sacrifica, subisce ogni sorta di umiliazione. Eppure è sempre lì. Lei, che inizialmente ha «cominciato a giocare a tennis solo per divertimento. Non voglio diventare una professionista». E quando sembra avere scaricato del tutto le batterie, stupisce le avversarie – quasi sempre odiose e supponenti – attingendo a chissà quale miracolosa fonte. Perché «tutti abbiamo nascosta una riserva di energia. Basta solo trovarla». Ha un solo difetto: la sua insicurezza la porta a vivere ogni problema come un’autentica tragedia. Per fortuna non è sola. C’è la sua amica Mary. Ci sono i genitori (che, chissà perché, nei primi 26 episodi non si vedono una volta che è una…). C’è il buon Teddy. A loro si aggiunge Reika. Negli OAV, la ragazza si avvicina molto a Jenny, pur mantenendo una certa distanza. La verità è che la campionessa del liceo Nishi indossa una maschera, perché si vergogna di mostrare i propri sentimenti. Anche lei crescerà molto, soprattutto quando Robin le spiega perché Jeremy le ha preferito la protagonista: tu sei troppo perfettina e poco flessibile mentre Jenny è una lavagna pulita su cui scrivere. Ma la ragazza è molto più di una lavagna. È l’occasione che il monaco ha per rendere immortale il suo migliore amico, realizzandone il sogno. Gliel’aveva promesso. Se Jeremy – che sapeva di dover morire – avesse trovato una giocatrice di talento, ne avrebbe proseguito l’opera. Se non è amicizia questa… Lo sport, insomma, insegna a sfruttare al massimo le proprie capacità. Corpo e spirito debbono diventare una cosa sola. La perfezione del primo è la base su cui costruire lo sviluppo del secondo. Gli atleti lo sanno: «Quando colpisci la palla non ti sembra che il tuo tiro e il tuo pensiero siano una cosa sola?» Lo dicevano in un vecchio spot: la potenza è niente, senza controllo.
0 notes