#corso a scelta save me save me corso a scelta
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but also ehehehehehehe <3333333333333333
#corso a scelta save me save me corso a scelta#ho già letto un libro della prof titolare del corso che mette in relazione fiabe con letteratura per l'infanzia e anche per adulti :)#ed è anche lei le radici storiche dei racconte di fate-pillata come me <3
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Riflessioni sparse a caldo (aperte al cambiamento) su Supernatural dopo la 15x20
La dichiarazione di Castiel, per quanto la dichiarazione in sé mi sia piaciuta (nel senso che se mi facessero una dichiarazione simile io dopo sarei in ginocchio), è stata semplicemente funzionale alla sua (temporanea) morte e uscita di scena e un inutile contentino a chi shippa Destiel (che non ha accontentato nessuno). Mancava la costruzione di un percorso – anche una sola conversazione che esprimesse l’esistenza del conflitto interno di Cass (the one thing I want is something I know I can’t have) – ed è stata totalmente priva di conseguenze nell’evoluzione dell’unico personaggio rimasto sullo schermo (Dean) e nell’evoluzione della trama. Se ne poteva fare a meno oppure si poteva costruire meglio prima, così non ha aggiunto niente di davvero rilevante per gli spettatori o per la storia. (Ci ha però regalato un fantastico venerdì 6nov2020 e di questo sarò sempre grata). Castiel non doveva essere necessariamente presente nell’ultima puntata (ma secondo me nella penultima sì). L’assenza di Cass nella penultima puntata è stata pesantissima, così come l’assenza di una qualsiasi conversazione sul suo destino, se non quelle due battute all’inizio. Questo non significa che avrebbe dovuto essere presente nel finale, ma sicuramente alla fine della 15x19 mi sarei aspettata una conversazione in più. Castiel è arrivato nella quarta stagione e ci ha rapito il cuore, soprattutto per il suo rapporto con Dean. Possiamo amare personaggio e attore, ma questa storia non era la sua. Era la storia di due fratelli. È sempre stata la loro storia (e dal mio parzialissimo punto di vista, la storia soprattutto di Dean). Non è neanche una storia sulla famiglia, allargata o meno, perché infatti John e Mary per quanto abbiano dei ruoli rilevanti, sono presenti per 2/3 stagioni ciascuno (da vivi). Alla luce di queste considerazioni, per me non era davvero necessario che Cass fosse presente in nessuna delle puntate successive alla 15x18, ma poteva essere gestita meglio. Potevamo non vederlo più dopo la 15x18, ma fare a meno di quel contentino che non ha cambiato nulla nella storia; oppure, dopo il contentino, avrebbero potuto farci vedere almeno una scena, una conversazione tra lui e Dean, preferibilmente nella 15x19. La 15x20 doveva essere intorno ai fratelli, ma l’uscita di scena di Castiel poteva essere gestita meglio.
La 15x20 mi sembra l’unico finale possibile. (anche se un paio di cose le avrei volute differenti). Avendo seguito la serie quasi dall’inizio (dalla seconda stagione), non ho mai pensato che la serie potesse avere un finale diverso da questo, anzi per molto tempo ho pensato che l’unico modo sarebbe stata la morte di entrambi. Ero certa, però, che l’unico modo per finirla sarebbe stata la definitiva morte di Dean. Lo sapevamo tutti, come sapevamo che i cacciatori non invecchiano. Questa serie non sarebbe mai potuta finire in altro modo. Io comprendo che per alcune persone Dean avrebbe dovuto avere la possibilità di fare una vita normale, la possibilità di andare in pensione, ma questo non è il percorso che ha fatto questo personaggio. Volendo si può dare colpa al suo passato e alla sua storia, ma da molto tempo Dean non immaginava più una vita che noi definiremmo normale e ho avuto l’impressione che la cosa più dolorosa e stremante del confronto con Chuck/Dio fosse non tanto l’idea che non avrebbe mai avuto la normalità borghese che noi chiamiamo felicità, ma che non avesse mai fatto liberamente tutte le scelte che ha fatto, che fosse stato sempre un burattino di qualcuno che voleva scrivere una storia epica. Nel momento della morte, ripete una formula a noi ben nota “Saving people, Hunting things”, ma manca un passaggio fondamentale il family business, perché Dean non è più il bravo primogenito che fa quello gli dice papà e porta avanti l’attività di famiglia, ma è un uomo che ha scelto cosa fare della propria vita. L’ultimo caso di Dean l’hanno trovato loro, non li hanno chiamati, come poi sarebbe stato chiamato Sam. L’hanno trovato, perché lo stavano cercando, perché Dean ha scelto di fare questo della propria vita. Ha scelto di spendere la sua vita per aiutare le persone facendo ciò che sa fare, proteggendole dai mostri che si annidano nelle tenebre. Tanto per ricapitolare, dove l’ha portato questa scelta: o Ha evitato innumerevoli apocalissi - la giudaico-cristiana - I Leviatani - Amara - Michael dell’altro mondo - Chuck/Dio o Ha salvato innumerevoli persone (ha anche ucciso parecchio). Chi ha visto The Old Guard (ma anche chi ha letto il Talmud) ha chiaro quanto salvare una sola vita può cambiare il corso della Storia o Ha sconfitto Chuck/Dio, non facendo ciò per cui i suoi nemici lo conoscono (“the ultimate killer”), ma risparmiandone la vita e spostando quel potere a una persona più giusta, più buona, più equilibrata (e potremmo parla del fatto di come sia un miracolo che Jack sia uscito così, considerando quanto ha passato anche a causa di uno dei suoi padri, ma è un’altra storia) o È morto salvando altri due bambini e chissà quanti altri (per la ripulitura del nido, al di là del mio essere troppo cristiana per essere indifferente a questo continuo ammazzamento) Anche a non avere la certezza di un aldilà che non è troppo male – cosa che invece Dean ha, Dean muore facendo ciò che voleva fare, proteggendo le persone e in ultima istanza avendo lasciato un’impronta sul mondo, che in pochi possono dire di aver lasciato. È il viaggio dell’eroe, come ha scritto Eric Kripke e alla fine l’eroe si è conquistato il suo riposo. Dean non sarebbe mai stato in grado di riposarsi sulla Terra, la sua pace era possibile solo dopo la morte. È il suo percorso ed è stato ancora più chiaro nell’ultima stagione, quanto Sam avesse una chance nel mondo e quanto Dean invece fosse ormai al capolinea. Negli ultimi momenti, però, non lo troviamo disperato, lo troviamo sereno. Ha vissuto una vita ricca, ha oggettivamente protetto il mondo (almeno nel suo universo e a modo suo), ha amato ed è stato amato e ora può riposarsi. Dean era un “guerriero” (un cavaliere) e se n’è andato lottando. Davvero, una “picket fence life” sarebbe stato vivere la sua vita? Cosa dice di noi, l’idea che Dean “non abbia vissuto la sua vita”? Cosa dice della nostra idea di cos’è la vita, di cosa ha valore?
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RECENSIONE: Mitski - Be The Cowboy (Dead Oceans, 2018)
La musica di Mitski Miyawaki è una delle più emotive ed intime nell'indie dell'ultimo decennio. Molto spesso la si associa ad artisti come Florence Welch, Japanese Breakfast, Courtney Barnett o Angel Olsen, tuttavia il suo percorso artistico non si può comparare a quello di nessuno dei nomi precedenti. Nel corso di sei anni di lavoro, ella ha coltivato una sensibilità ed un sound distinto, evolvendosi fino a diventare un'impareggiabile scavatrice delle sue stesse ansie, infatuazioni e bruttezze, esaminandole attraverso le lenti della fama.
Un paio di anni sono passati da quando Mitski ha abbandonato il suo strumento preferito, il pianoforte, dei primi due dischi per prendere per la prima volta in mano una chitarra e comporre Bury Me At Make Out Creek, in cui metabolizza i suoi sentimenti attraverso un sound lo-fi più caratteristico e graffiante, maturato ulteriormente nel successivo Puberty 2, un'altra rinascita che l'annovera nell'olimpo dell'indie rock.
In Be The Cowboy abbandona quasi completamente le centrali distorsioni sonore dei dischi precedenti per ampliare la scelta degli strumenti e rispolverare la sua conoscenza delle strutture musicali, intrecciandole ancora una volta con l'introspezione nuda dei testi. Libera dalle stratificazioni vocali e dai riverberi possiamo sentire una Mitski cristallina mentre dipinge se stessa - una donna le cui ferite iniziano a tirare cercando di tenere tutti i pezzi insieme su un palco - raccontando una storia di tensione tra il desiderio di controllo e la confusione, e la finale realizzazione che tali preoccupazioni possono essere inutili, sopratutto alla luce di altri dolori: la sensazione di esserti persa qualcosa e di non essere più capace di amare. Mitski concretizza tutto in musica con una diversità ed una larghezza sonora mai sentita prima nei suoi dischi, riducendo al minimo la durata delle quattordici tracce - solo l'ultima arriva ai tre minuti - portando i testi all'essenzialità ed enfatizzando le melodie.
Be The Cowboy è tante cose, è un amore contrastato nei confronti della musica che è sempre stata la priorità dell'artista, ma le ha impedito di soddisfare i suoi altri bisogni come il benessere mentale e la coltivazione di relazioni romantiche sane. Mitski è sincera su come far musica possa assorbirti del tutto fino a prosciugarti e nello stesso tempo riempirti d'appagamento. E' il contrasto di cui parla sin dall'inizio nella teatrale e maestosa Geyser, una traccia che la stessa Mitski ha definito come una delle più vaghe che abbia mai scritto, rinunciando alla narrativa per incentrarsi sul sentimento. Il risultato è un brano che cresce costantemente fino ad esplodere, facendo giustizia al suo titolo, in un climax fatto di organi, percussioni e synth sulla voce gloriosa della cantante.
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"I gave too much of my heart tonight / Can you come to where I'm staying and make some extra love / That I can save till tomorrow's show" supplica nella ruvida Remember My Name, in cui viene a patti con l'inconciliabilità tra i suoi desideri più profondi sul voler essere onnipotente, immune all'oblio e l'aspra realtà. “I need something bigger than the sky / Hold it in my arms and know it's mine / Just how many stars will I need to hang around me / To finally call it heaven?". Mitski sembra soddisfatta della sua vulnerabilità e permette a se stessa di incrinarsi su strumentali ruggenti, chitarre rombanti, organi celebrativi e synth evanescenti come nella scintillante Why Didn't You Stop Me? in cui il riff di chitarra può fare invidia a St. Vincent o nell'elettrica A Pearl, dove l'assolo finale è uno dei momenti più soddisfacenti e liberatori dell'album.
Old Friends apre una finestra nostalgica su una storia che sembra un film, ma che in realtà parla di una situazione in cui tutti prima o poi ci ritroviamo - il momento in cui dopo tanto tempo inizi a desiderare un'incontro con una persona del passato, nonostante stiate entrambi vivendo una vita apparentemente felice - così, su un ritornello dal sapore country Mitski canta "You'll meet me at blue diner / I'll take coffee and talk about nothing, baby". E' un peccato duri così poco.
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Anche Lonesome Love richiama il country e pur essendo una di quelle tracce che musicalmente convince di meno Mistki è capace di esemplificare in poche righe tutto il sentimento dell'album. “Cause nobody butters me up like you do / And nobody fucks me like me” canta in una delle sue strofe più dirette. “Spend an hour on my make up / to prove something” esordisce evocando la copertina che mostra una Mistki a cui viene ritoccato il trucco; nella foto lo sguardo penetrante e sicuro vuole concentrare l'attenzione su se stessa e non sulla mano che irrompe nell'inquadratura e porta a pensare ad una messa in scena, come in un set cinematografico nel quale tutto è costruito su misura per quel momento e solo chi si trova veramente lì sa che è tutta una recita. Così Mitski interpreta l'attrice di se stessa, consapevole che ciò che vede allo specchio non corrisponde a ciò che gli altri vedono. E con la fama arriva anche una fantastica solitudine. "Why am I lonely?" Mitski si interroga a tal proposito nella strofa finale e Nobody gli fa eco esordendo con "My God I'm so lonely", una traccia in cui la sua solitudine sembra così esageratamente ineluttabile che vale la pena romanticizzarla con una strumentale irresistibilmente ballabile e rinfrescante. “Guess I'm a coward / I just want to feel alright / And I know no one will save me / I just need someone to kiss".
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Anche Washing Machine Heart scava in una simile celebrazione, mentre Come into the Water e A Horse Named Cold Air saltano indietro nel tempo tra la Mistki dietro il piano dei primi album e la fragilità del precedente Puberty 2. “I thought I’d traveled a long way / But I had circled the same old sin”. Two Slow Dancers è una delle migliori tracce conclusive di quest'anno ed una delle prove di scrittura in cui Mitski supera se stessa. “It would be a hundred times easier / If we were young again / But as it is / And it is / We're just two slow dancers, last ones out"
Be The Cowboy è un album consistente brano dopo brano ed aldilà dei tecnicismi ciò che rimane impresso all'ascoltatore è la grande capacità della sua protagonista di raccontarsi perfettamente fino all'ultimo respiro, volendo sfatare i falsi miti della bellezza e della fama. Se tutti sapessimo ascoltare noi stessi come fa Mitski sarebbe un mondo migliore, ma va bene così, lei stessa ci insegna che la perfezione non esiste, ed infondo, in questo modo possiamo apprezzare il lavoro di una grande cantautrice come lei.
TRACCE MIGLIORI: Old Friend, Nobody, Two Slow Dancers
TRACCE PEGGIORI: Come Into The Water, Pink in the Night
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Con Sarah Stride, “I Barbari” sul palco di Musicultura 2018
A chi le chiede che cosa la renda felice, risponde: “Assomigliare quanto più possibile alla mia opera, senza compromessi né volontà di compiacere ma in aderenza alla mia natura più profonda”. Si presenta così Sarah Stride, artista versatile in grado di prestare la propria voce, solo per dirne alcune, sia ad un album da solista che porta il suo nome, sia all’arrangiamento in chiave rock di celebri brani maschili anni ’60, sia alla convivenza - in un equilibrio straniante e decisamente nuovo - di melodia italiana ed elettronica industrial.
Non manca nemmeno il dark wave nelle corde della cantautrice di Como: è con una canzone con sonorità appartenenti a questo genere, infatti, che Sarah si è aggiudicate l’ingresso nella rosa dei 16 finalisti di Musicultura. Apriamo la nostra intervista proprio con una domanda a riguardo.
In occasione della tua esibizione alle audizioni di Musicultura, con una sonorità dark/wave ed un’interpretazione eccellente, hai esordito con “I barbari”. Il brano inizia così: “Il mondo era silenzioso all’inizio. Non erano ancora arrivati i derelitti”. Esattamente, a cosa fai riferimento?
Non c’è un riferimento specifico per quell’immagine, si tratta più di una suggestione che ha guidato tutto il testo. Nell’epoca sconnessa e farraginosa in cui viviamo, i derelitti siamo noi uomini che la abitiamo. Noi, sempre più lontani dalla nostra natura, persi nell’ansia di riempire tutti i vuoti con cose inconsistenti, noi, incapaci di stare in silenzio, incapaci semplicemente di “stare”. Mi piace pensare al tempo in cui esisteva ancora un legame magico e insondabile tra l’uomo e il mondo che lo circondava. Ora classifichiamo, cataloghiamo, vogliamo dare una spiegazione a tutto e abbiamo perso quella distanza sacra, salvifica che rende la vita stra-ordinaria e che è il luogo dell’arte e della bellezza.
Credevi che sarebbe stato proprio “I barbari”, appunto, il brano scelto dalla Commissione di Musicultura? Cosa provi se pensi che potresti avere la possibilità di esibirti con quel pezzo anche sul palco dello Sferisterio di Macerata?
Onestamente no! Nell’album sono presenti alcuni brani (pochi!) più leggeri e fruibili quindi mi ha abbastanza sorpreso questa scelta piuttosto controcorrente. Pensare di potermi esibire con “I Barbari” è un pensiero che mi riempie di gioia, una boccata di aria fresca e pulita, perché è tra le canzoni dell’album che amo di più e perché in qualche modo, il fatto che sia “arrivata” e che il suo viaggio possa continuare, mi da un bellissimo senso di condivisione e appartenenza e soprattutto di fiducia.
Il tuo nuovo album, uscito lo scorso autunno, vede uno strappo forte rispetto ai lavori precedenti, caratterizzati da una coesistenza molto particolare tra una base strumentale proveniente da esperienze rock, jazz, grunge e la tua voce, graffiata e dolce allo stesso tempo. Nel tuo ultimo lavoro, invece, sembrano farsi largo suoni più cupi e una sonorità più vicina al mondo del wave e dell’elettronica. Come è nato questo cambiamento? Veicola una tua particolare esigenza espressiva?
Ho sempre avuto ascolti molto vicini al synth pop inglese, alla new wave, al trip hop, più che al rock ed era molto tempo che sentivo la necessità di indagare queste influenze in modo più completo, non solo con la scrittura, che bene o male ha sempre frequentato quei luoghi, ma soprattutto con gli arrangiamenti. Questo ultimo lavoro, a differenza dei precedenti, è partito dalla scrittura dei testi nei quali, insieme a Simona Angioni, l’esigenza più forte è stata quella di scendere molto in profondità, di dare corpo alle ombre in un modo che fosse il più onesto possibile. Un sottosuolo che Kole Laca, con le scelte di produzione artistica, ha saputo cogliere e rispettare creando un mondo sonoro straniante e nuovo perfettamente adeso all’urgenza e l’essenzialità della scrittura.
Nel corso della tua carriera hai manifestato interesse per tematiche sociali e ambientali; un esempio è la tua adesione alla campagna “Save the Arctic”, sostenuta da Greenpeace e riguardante la problematica dello scioglimento dei ghiacciai. Quali sono le altre battaglie che credi sia fondamentale intraprendere e come credi che la musica possa contribuire alla diffusione di questi temi ed alla sensibilizzazione dell’opinione pubblica nei loro riguardi?
La musica, così come gli altri linguaggi artistici, è un mezzo potentissimo perché comunica attraverso i simboli. Io credo nella potenza dell’invisibile, dell’immaginario che non discrimina e che può muovere le coscienze. La difesa e la cura delle minoranze deboli dovrebbe essere una battaglia quotidiana e credo che sia doveroso approfittare della propria visibilità, anche se minima, per avvicinare le persone a questi temi. Siamo creature fragili e la sofferenza degli altri ci spaventa sempre molto perché spesso si specchia nella nostra senza che ce ne si renda conto ma, come è stato per me, la musica e l’arte in genere non solo possono renderla più tollerabile, soprattutto possono trasformarla.
Sarah Stride e il futuro: progetti, appuntamenti, impegni, aspettative, sogni?
Sogni tanti, sempre. Per il momento sono molto concentrata nella preparazione dell’uscita dell’album nuovo che è prevista per inizio autunno e nel quale ho messo letteralmente tutto ciò che avevo, in tutti i sensi! Nel frattempo gireremo un po’ l’Italia per i live estivi e cercherò di godere al massimo del presente e delle bellissime cose, come questa, che mi sta regalando.
Leonardo Galletti
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