#collegialismo
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anticattocomunismo · 5 months ago
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Video. Dobbiamo imparare dagli eretici o da Cristo?
Il documento del Dicastero per l’Unione dei Cristiani “Il vescovo di Roma” insinua che la Chiesa dovrebbe imparare la sinodalità dagli ortodossi e dai protestanti. Ma il nostro Maestro non è Cristo? Perché dovremmo emulare esperienze fallimentari?
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cristianesimocattolico · 11 years ago
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Nella solennità dei Santi Pietro e Paolo, meditando sul ministero petrino, Papa Francesco ha implicitamente indicato le linee che intende seguire nella riforma della struttura della Chiesa. Citando la "Lumen gentium" ha affermato che il collegio dei vescovi esprime la varietà del Popolo di Dio, che deve essere ricondotta a unità attorno al vescovo di Roma.
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anticattocomunismo · 2 years ago
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Il “sinodalismo”, compimento del pontificato di papa Francesco
La categoria di “sinodalità” non è nata, dunque, con papa Francesco, ma con lui è divenuta un paradigma ufficiale, che corrisponde al concetto di una “chiesa in uscita”, “con le porte aperte”. All’immagine della “chiesa piramidale”, Francesco ha sostituito quella della “chiesa poliedrica”. (more…) “”
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anticattocomunismo · 2 years ago
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Il Sinodo permanente, stortura che accresce i timori
Il Sinodo permanente, stortura che accresce i timori
La decisione di Francesco di prolungare al 2024 il Sinodo sulla sinodalità si fonda sull’idea che esso «non è un evento ma un processo». Ciò accresce i timori per la Chiesa. I sinodi non hanno mai avuto valore deliberativo, ma solo consultivo. La nuova concezione di sinodalità punta invece a collocarsi a fianco del Papa e non sotto il Papa. (more…)
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anticattocomunismo · 2 years ago
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Vescovi ridotti a postini, è ora che si sveglino
Vescovi ridotti a postini, è ora che si sveglino
Il caso del documento della Chiesa francese inviato al Sinodo con richieste “liberal” non condivise dai vescovi, è segno della rassegnazione degli stessi vescovi il cui ruolo è svilito anche dall’autoritarismo di questo pontificato. Eppure, proprio in nome del Concilio i vescovi dovrebbero rialzare la testa. (more…)
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anticattocomunismo · 2 years ago
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Prædicate Evangelium, riduzione del potere dei vescovi
Prædicate Evangelium, riduzione del potere dei vescovi
La riforma della curia voluta da papa Francesco fa propria quella sua sinodalità che riduce e i poteri dei vesconi nelle loro diocesi. (more…)
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anticattocomunismo · 2 years ago
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Se il papa tace, che parlino i vescovi!
Se il papa tace, che parlino i vescovi!
Paradossalmente, il Vaticano II, che si diceva dovesse essere il concilio dei vescovi, destinato a ristabilire l’equilibrio alterato dal Vaticano I, concilio del papa, non ha fatto altro che instaurare una nuova forma di centralizzazione, il vescovo conciliare racchiuso in una rete ideologica, ritrovatosi molto più dipendente da Roma di quanto non fosse un tempo. (more…)
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anticattocomunismo · 6 years ago
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Da Martini a Bergoglio. Verso un Concilio Vaticano III
Da Martini a Bergoglio. Verso un Concilio Vaticano III
Come il gesuita Carlo Maria Martini anche il confratello Jorge Mario Bergoglio batte e ribatte sullo “stile” con cui la Chiesa dovrebbe affrontare tali questioni. Uno “stile sinodale” permanente, ossia “un modo di essere e lavorare insieme, giovani e anziani, nell’ascolto e nel discernimento, per giungere a scelte pastorali rispondenti alla realtà”.
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anticattocomunismo · 6 years ago
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Di (questa) sinodalità si può morire
Di (questa) sinodalità si può morire
La nuova Costituzione apostolica Episcopalis Communio sembra ratificare un grave equivoco sul significato dei Sinodi, ovvero che siano i sinodi a produrre la verità e non viceversa. Ma oggi il vero problema della Chiesa è l’episcopato, vale a dire la perdita del senso di cosa significhi essere successore degli Apostoli.
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anticattocomunismo · 10 years ago
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Il Concilio Vaticano I e il sinodo del 2014
Il Concilio Vaticano I e il sinodo del 2014
di Roberto de Mattei
La fase storica che si apre dopo il Sinodo del 2014 esige da parte dei cattolici non solo la disponibilità alla polemica e alla lotta, ma anche un atteggiamento di prudente riflessione e studio dei nuovi problemi che sono sul tappeto.
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anticattocomunismo · 11 years ago
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Molto accentratore e poco collegiale. I vescovi lo vedono così
A dispetto delle promesse di rafforzamento del loro ruolo, per le conferenze episcopali sono tempi difficili. Francesco decide di testa sua. Il gesuita De Lubac suo maestro di ecclesiologia. 
di Sandro Magister (18/12/2013)
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Nell'intervista al vaticanista amico Andrea Tornielli, su "La Stampa" di tre giorni fa, papa Francesco è tornato su due punti della "Evangelii gaudium" che avevano suscitato animati commenti pro e contro.
Il primo punto è la comunione ai divorziati risposati. Il papa ha voluto precisare che non si riferiva ad essa, quando nell'esortazione apostolica parlava della comunione "come cibo spirituale, da considerare un rimedio e non un premio".
Con ciò Francesco ha tenuto a distinguersi da coloro che avevano letto quelle sue parole come un'ennesima "apertura" e si erano espressi pubblicamente a favore della comunione. Tra i quali, da ultimi, il neosegretario generale del sinodo dei vescovi Lorenzo Baldisseri e il cardinale Walter Kasper.
La seconda puntualizzazione ha riguardato il suo rifiuto della teoria economica del "derrame" – espressione tradotta in italiano con "ricaduta favorevole" e in inglese con "trickle-down" – secondo cui "ogni crescita economica, favorita dal libero mercato, riesce a produrre di per sé una maggiore equità e inclusione sociale".
Papa Jorge Mario Bergoglio ha ribadito – "non da tecnico" – di non credere nella fondatezza di tale teoria. E con ciò ha respinto le critiche che gli erano state rivolte in particolare dal teologo neoconservatore americano Michael Novak, secondo cui la diffidenza del papa sarebbe comprensibile "in un sistema statico come l'Argentina, privo di ogni meccanismo di mobilità sociale", ma non negli Stati Uniti e in altri paesi a capitalismo avanzato, dove "la ricchezza scaturisce dal basso" e la crescita economica – se confortata dalla tutela dei diritti primari e dalla cura dei poveri tipica della tradizione ebraico-cristiana – favorisce l'ascesa dei meno abbienti verso più alti livelli di vita.
Delle due precisazioni, la prima tocca uno dei punti cruciali della "Evangelii gaudium", là dove Francesco promette più collegialità nel governo della Chiesa, con maggiori poteri attribuiti alle conferenze episcopali.
In un precedente servizio, www.chiesa ha messo in luce la novità di questo orientamento espresso da papa Bergoglio rispetto alla linea dei suoi predecessori Karol Wojtyla e Joseph Ratzinger, entrambi molto risoluti nel contrastare il rischio che la Chiesa diventi "una sorta di federazione di Chiese nazionali":
> L'opzione federalista del vescovo di Roma
Alcuni ecclesiastici di primo piano si sono spinti anche al di là di quanto detto e non detto da Bergoglio. Ad esempio, l'arcivescovo Baldisseri – considerato un pupillo del papa – ha già dato per assodato che "Francesco vuole un sinodo dinamico e permanente, come osmosi tra il centro e la periferia".
Il moltiplicarsi in Germania, da parte di vescovi e cardinali di peso, di pronunciamenti a sostegno della comunione ai divorziati risposati – che sarà appunto uno dei temi in discussione nel prossimo sinodo – sembra anch'esso avvalorare questa novità.
Ci sono però almeno due elementi, in papa Bergoglio, che sembrano orientarlo in direzione opposta.
Il primo è la forma monocratica, accentratrice, con cui Francesco sta di fatto governando la Chiesa.
Le nomine più significative di questo inizio di pontificato, sia in curia che fuori, sono tutte discese da scelte personali di papa Bergoglio, talora fatte saltando i normali processi di consultazione o trascurando le norme in vigore.
Ad esempio, nonostante le leggi fondamentali del governatorato della Città del Vaticano consentano che il segretario generale sia un laico, il papa non solo ha promosso a questo ruolo un ecclesiastico, il legionario di Cristo argentino Fernando Vérgez Alzaga, a lui legatissimo, ma lo ha anche consacrato vescovo e gli ha affidato la cura pastorale dei cittadini del piccolo Stato, sottraendola al cardinale Angelo Comastri, arciprete della basilica di San Pietro e vicario generale per la Città del Vaticano.
In altri casi Francesco ha nominato persone che sono la negazione vivente del suo programma di pulizia e di riforma della curia. E le ha mantenute al loro posto nonostante tutti gli avvertimenti ricevuti in contrario, anche da parte di ecclesiastici integerrimi e di sua sicura fiducia:
> Ricca e Chaouqui, due nemici in casa
Quanto alle conferenze episcopali, la loro autonomia e il loro peso non sono in crescita ma in declino. Tra quelle che si erano distinte nella fase finale del pontificato di Benedetto XVI, solo quella degli Stati Uniti prosegue sulla stessa rotta.
L'italiana, la più legata alla sede di Pietro, è allo sbando. Francesco ha esautorato il segretario generale Mariano Crociata e l'ha confinato a Latina, una diocesi di terza fila. Ha rimosso il presidente, il cardinale Angelo Bagnasco, dal ruolo di membro della congregazione per i vescovi, promuovendovi al suo posto l'arcivescovo di Perugia Gualtiero Bassetti, uno dei tre vicepresidenti della CEI, che risulta essere invece nelle grazie dell'attuale papa. E ora si appresta a nominare il nuovo segretario, che diventerà di fatto il numero uno della conferenza, alle sue dirette dipendenze.
Nel frattempo, Bergoglio ha chiesto alla CEI di decidere se intende eleggere essa stessa il futuro presidente oppure se preferisce lasciare la nomina al papa, come avviene da sempre.
Nel 1983, nell'unica loro precedente consultazione in materia, i vescovi italiani si dissero in maggioranza favorevoli all'elezione.
Ma questa volta, dagli umori che circolano, sembra che i più preferiscano lasciare a papa Bergoglio l'incombenza, pur di evitare il rischio di entrare in collisione con lui.
Nel conclave dello scorso marzo i vertici della CEI si spesero a sostegno del cardinale Angelo Scola. E poco dopo l'"habemus papam" diffusero per errore un comunicato di plauso per l'avvenuta elezione… dell'arcivescovo di Milano.
Tuttora temono che il vero eletto non gliel'abbia perdonata.
Il secondo elemento che sembra trattenere papa Francesco da un rafforzamento delle conferenze episcopali, in funzione di un governo della Chiesa più "collegiale", ha a che fare con l'ecclesiologia.
"La Chiesa universale non può essere concepita come la somma delle Chiese particolari né come una federazione di Chiese particolari. Essa non è il risultato della loro comunione, ma, nel suo essenziale mistero, è una realtà ontologicamente e temporalmente previa ad ogni singola Chiesa particolare".
Così si sono espressi Giovanni Paolo II e l'allora cardinale Ratzinger in una lettera del 1992 della congregazione per la dottrina della fede, dal titolo "Communionis notio".
La lettera era indirizzata ai vescovi e così proseguiva:
"Infatti, ontologicamente, la Chiesa-mistero, la Chiesa una ed unica secondo i Padri, precede la creazione, e partorisce le Chiese particolari come figlie, si esprime in esse, è madre e non prodotto delle Chiese particolari. Inoltre, temporalmente, la Chiesa si manifesta nel giorno di Pentecoste nella comunità dei centoventi riuniti attorno a Maria e ai dodici Apostoli, rappresentanti dell'unica Chiesa e futuri fondatori delle Chiese locali, che hanno una missione orientata al mondo: già allora la Chiesa parla tutte le lingue.
"Da essa, originata e manifestatasi universale, hanno preso origine le diverse Chiese locali, come realizzazioni particolari dell'una ed unica Chiesa di Gesù Cristo. Nascendo nella e dalla Chiesa universale, in essa e da essa hanno la loro ecclesialità. Perciò, la formula del Concilio Vaticano II: 'La Chiesa nelle e a partire dalle Chiese' (Ecclesia in et ex Ecclesiis) è inseparabile da quest'altra: "Le Chiese nella e a partire dalla Chiesa" (Ecclesiae in et ex Ecclesia). È evidente la natura misterica di questo rapporto tra Chiesa universale e Chiese particolari, che non è paragonabile a quello tra il tutto e le parti in qualsiasi gruppo o società puramente umana".
La lettera dava veste ufficiale alla tesi sostenuta da Ratzinger nella disputa che lo opponeva al collega teologo tedesco, poi cardinale, Walter Kasper.
Kasper sosteneva la simultaneità originaria della Chiesa universale e delle Chiese particolari e vedeva all'opera in Ratzinger "un tentativo di restaurazione teologica del centralismo romano". Mentre Ratzinger rimproverava a Kasper di ridurre la Chiesa a una costruzione sociologica, mettendo in pericolo l’unità della Chiesa e in particolare il ministero del papa.
La disputa tra i due cardinali teologi è proseguita fino al 2001, con un ultimo scambio di stoccate sulla rivista dei gesuiti di New York, "America".
Ma divenuto papa, Ratzinger è tornato a ribadire la sua tesi nell'esortazione apostolica postsinodale "Ecclesia in Medio Oriente" del 2012:
"La Chiesa universale è una realtà preliminare alle Chiese particolari, che nascono nella e dalla Chiesa universale. Questa verità riflette fedelmente la dottrina cattolica e particolarmente quella del Concilio Vaticano II. Introduce alla comprensione della dimensione gerarchica della comunione ecclesiale e permette alla diversità ricca e legittima delle Chiese particolari di articolarsi sempre nell’unità, luogo nel quale i doni particolari diventano un’autentica ricchezza per l’universalità della Chiesa".
E Bergoglio? Eletto lui alla cattedra di Pietro, diede subito l'impressione di volere un governo della Chiesa più collegiale.
E nel suo primo Angelus in piazza San Pietro, il 17 marzo, raccontò alla folla d'aver letto con profitto un libro del cardinale Kasper, "un teologo in gamba, un buon teologo".
Alcuni associarono le due cose e conclusero che papa Francesco sposasse le posizioni di Kasper nel rapporto tra Chiesa universale e Chiese locali.
Ma non era così. Il libro di Kasper letto dal papa non riguardava l'ecclesiologia, ma la misericordia di Dio.
E quanto all'ecclesiologia, il teologo da sempre più ammirato e citato da Bergoglio è Henri De Lubac (1896-1991), gesuita e infine cardinale, autore nel 1971 di un saggio dal titolo "Les Églises particulières dans l'Église universelle" che sosteneva con vent'anni d'anticipo e quasi con le stesse parole le tesi di Ratzinger e della "Communionis notio".
A giudizio di De Lubac "la Chiesa universale non risulta in un secondo momento per un'addizione di Chiese particolari o per una loro federazione". Né la collegialità episcopale deve tradursi in "nazionalismi ecclesiali che si accompagnano solitamente a un altrettanto nefasto pluralismo dottrinale" e a una sottrazione al papa della sua autorità.
Nel capitolo quinto di "Les Églises particulières dans l'Église universelle" De Lubac applica l'analisi alle conferenze episcopali e attribuisce loro un fondamento non dottrinale ma semplicemente pragmatico, non di diritto divino ma di solo diritto ecclesiastico:
"La costituzione conciliare 'Lumen gentium' è la più chiara possibile, a questo proposito. Non riconosce alcuna mediazione di ordine dottrinale tra la Chiesa particolare e la Chiesa universale".
Papa Bergoglio non è teologo. Ma questi sono i suoi maestri.
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L'intervista di papa Francesco ad Andrea Tornielli, uscita su "La Stampa" del 15 dicembre: > "Mai avere paura della tenerezza"
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La lettera del 1992 della congregazione per la dottrina della fede ai vescovi, sul rapporto tra la Chiesa universale e le Chiese particolari: > Communionis notio
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Una precisa ricostruzione della disputa tra Joseph Ratzinger e Walter Kasper, ad opera dell'archimandrita e teologo greco ortodosso Amphilochios Miltos, pubblicata su "Istina" 58 (2013) 1, 23-39 e su "Il Regno-Documenti" 17 (2013), 568-576: > Le Chiese locali e la Chiesa universale
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anticattocomunismo · 11 years ago
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L'opzione federalista del vescovo di Roma
Più autonomia alle conferenze episcopali nazionali. E più spazio alle diverse culture. I due punti su cui la "Evangelii gaudium" maggiormente si distingue dal magistero dei precedenti papi.
di Sandro Magister (03/12/2013)
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Nella fluviale esortazione apostolica Evangelii gaudium resa pubblica una settimana fa, papa Francesco ha fatto capire di volersi distinguere su almeno due punti dai papi che l'hanno preceduto. Il primo di questi punti è anche quello che ha avuto più risonanza sui media. E riguarda sia l'esercizio del primato del papa, sia i poteri delle conferenze episcopali.
Il secondo punto riguarda il rapporto tra il cristianesimo e le culture.
1. SUL PAPATO E LE CHIESE NAZIONALI
Circa il ruolo del papa, Jorge Mario Bergoglio riconosce a Giovanni Paolo II il merito di aver aperto la strada verso una nuova forma di esercizio del primato. Ma lamenta che "siamo avanzati poco in questo senso" e promette di voler procedere con più slancio verso una forma di papato "più fedele al significato che Gesù Cristo intese dargli e alle necessità attuali dell’evangelizzazione". Ma più che sul ruolo del papa – dove Francesco resta sul vago ed anzi ha finora operato concentrando in sé il massimo delle decisioni – è sui poteri delle conferenze episcopali che la "Evangelii gaudium" fa presagire una svolta.
Scrive il papa, nel paragrafo 32 del documento:
"Il Concilio Vaticano II ha affermato che, in modo analogo alle antiche Chiese patriarcali, le conferenze episcopali possono 'portare un molteplice e fecondo contributo, acciocché il senso di collegialità si realizzi concretamente'. Ma questo auspicio non si è pienamente realizzato, perché ancora non si è esplicitato sufficientemente uno statuto delle conferenze episcopali che le concepisca come soggetti di attribuzioni concrete, includendo anche qualche autentica autorità dottrinale. Un’eccessiva centralizzazione, anziché aiutare, complica la vita della Chiesa e la sua dinamica missionaria".
In nota, Francesco rinvia a un motu proprio di Giovanni Paolo II del 1998, riguardante proprio "la natura teologica e giuridica delle conferenze episcopali":
> Apostolos suos
Ma se si va a leggere quel documento, si scopre che esso riconosce alle conferenze episcopali nazionali una funzione esclusivamente pratica, cooperativa, di semplice corpo ausiliare intermedio tra il collegio di tutti i vescovi del mondo assieme al papa da un lato – unica "collegialità" dichiarata teologicamente fondata – e il singolo vescovo con autorità sulla sua diocesi dall'altro.
Soprattutto, il motu proprio "Apostolos suos" limita fortemente quella "autentica autorità dottrinale" che papa Francesco dice di voler concedere alle conferenze episcopali. Prescrive che se proprio vogliono emettere delle dichiarazioni dottrinali, lo devono fare con approvazione unanime e in comunione col papa e l'insieme della Chiesa, o almeno "a maggioranza qualificata" con il previo controllo e autorizzazione della Santa Sede.
Un pericolo da cui il motu proprio "Apostolos suos" mette in guardia è che le conferenze episcopali emettano dichiarazioni dottrinali in contrasto tra loro e con il magistero universale della Chiesa.
Un altro rischio che vuole scongiurare è che si creino separazioni e antagonismi tra singole Chiese nazionali e Roma, come avvenne in passato in Francia con il "gallicanesimo" e come avviene tra gli ortodossi con alcune Chiese nazionali autocefale.
Quel motu proprio porta la firma di Giovanni Paolo II, ma deve il suo impianto a colui che era il suo fidatissimo prefetto della dottrina, il cardinale Joseph Ratzinger.
E Ratzinger – si sapeva – era da tempo molto critico dei superpoteri che alcune conferenze episcopali si erano attribuite, soprattutto in alcuni paesi tra i quali la sua Germania.
Nella sua intervista-bomba del 1985, edita col titolo "Rapporto sulla fede", Ratzinger si era opposto risolutamente a che la Chiesa cattolica diventasse "una sorta di federazione di Chiese nazionali".
Invece che "un deciso rilancio del ruolo del vescovo" come voluto dal Concilio Vaticano II, le conferenze episcopali nazionali – accusava – hanno "soffocato" i vescovi con le loro pesanti strutture burocratiche.
E ancora:
"Sembra molto bello decidere sempre insieme", ma "la verità non può essere creata come risultato di votazioni", sia perché "lo spirito di gruppo, magari la volontà di quieto vivere o addirittura il conformismo trascinano la maggioranza ad accettare le posizioni di minoranze intraprendenti, determinate ad andare verso direzioni precise", sia perché "la ricerca del punto di incontro tra le varie tendenze e lo sforzo di mediazione danno luogo spesso a documenti appiattiti, smorti".
Giovanni Paolo II e dopo di lui Benedetto XVI giudicavano modesta la qualità media dei vescovi del mondo e della gran parte conferenze episcopali. E agirono di conseguenza. Facendo essi stessi da guida e da modello e in alcuni casi – come in Italia – intervenendo risolutamente per mutare le leadership e le direzioni di marcia.
Con Francesco le conferenze episcopali potrebbero invece vedersi riconosciuta un'autonomia maggiore. Con i prevedibili contraccolpi di cui è fresco esempio la Germania, dove vescovi e cardinali di primo piano si stanno pubblicamente scontrando sulle questioni più varie, dai criteri di amministrazione delle diocesi alla comunione ai divorziati risposati, in quest'ultimo caso anticipando e forzando soluzioni su cui è stato chiamato a dibattere e decidere il doppio sinodo dei vescovi del 2014 e del 2015.
2. SUL CRISTIANESIMO E LE CULTURE
Quanto all'incontro tra il cristianesimo e le culture, papa Francesco ha molto insistito, nei paragrafi 115-118 della "Evangelii gaudium", sulla tesi che "il cristianesimo non dispone di un unico modello culturale" ma fin dalle origini "si incarna nei popoli della terra, ciascuno dei quali ha la sua cultura".
In altre parole:
"La grazia suppone la cultura, e il dono di Dio si incarna nella cultura di chi lo riceve".
Con questo corollario:
"Sebbene sia vero che alcune culture sono state strettamente legate alla predicazione del Vangelo e allo sviluppo di un pensiero cristiano, il messaggio rivelato non si identifica con nessuna di esse e possiede un contenuto transculturale".
Dicendo ciò, papa Bergoglio sembra andare incontro a chi sostiene che l'annuncio del Vangelo abbia una sua purezza originaria rispetto a qualsiasi contaminazione culturale. Una purezza che dovrebbe essergli restituita, liberandolo principalmente dai suoi rivestimenti "occidentali" di ieri e di oggi, per consentirgli ogni volta di "inculturarsi" in nuove sintesi con altre culture.
Ma posto in questi termini, questo rapporto tra il cristianesimo e le culture trascura quel nesso inscindibile tra fede e ragione, tra rivelazione biblica e cultura greca, tra Gerusalemme e Atene, al quale Giovanni Paolo II ha dedicato l'enciclica "Fides et ratio" e sul quale Benedetto XVI ha focalizzato il suo memorabile discorso di Ratisbona del 12 settembre 2006:
> Fede, ragione e università
Per papa Ratzinger il legame tra la fede biblica e il filosofare greco è "una necessità intrinseca" che si manifesta non solo nel folgorante prologo del Vangelo di Giovanni: "In principio era il Logos", ma già nell'Antico Testamento, nel misterioso "Io sono" di Dio nel roveto ardente: "una contestazione nei confronti del mito con la quale sta in intima analogia il tentativo di Socrate di vincere e superare il mito stesso".
Questo incontro "tra spirito greco e spirito cristiano" – sosteneva Benedetto XVI – "si è realizzato in un modo che per la nascita del cristianesimo e la sua divulgazione ha avuto un significato decisivo".
Ed è una sintesi – argomentava ancora papa Benedetto – che va difesa da tutti gli attacchi che nel corso dei secoli, fino ai giorni nostri, hanno mirato a romperla, in nome della "deellenizzazione del cristianesimo".
Ai giorni nostri – faceva notare Ratzinger a Ratisbona – questo attacco si produce "in considerazione dell'incontro con la molteplicità delle culture":
"Si ama dire oggi che la sintesi con l’ellenismo, compiutasi nella Chiesa antica, sarebbe stata una prima inculturazione, che non dovrebbe vincolare le altre culture. Queste dovrebbero avere il diritto di tornare indietro fino al punto che precedeva quella inculturazione per scoprire il semplice messaggio del Nuovo Testamento ed inculturarlo poi di nuovo nei loro rispettivi ambienti. Questa tesi non è semplicemente sbagliata, è grossolana ed imprecisa. […] Certamente ci sono elementi nel processo formativo della Chiesa antica che non devono essere integrati in tutte le culture. Ma le decisioni di fondo che, appunto, riguardano il rapporto della fede con la ricerca della ragione umana, queste decisioni di fondo fanno parte della fede stessa e ne sono gli sviluppi, conformi alla sua natura".
Su questo tema capitale, la Evangelii gaudium non necessariamente contraddice il magistero di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI. Ma sicuramente ne è distante.
Anche qui con una evidente simpatia per una pluralità di forme di Chiesa, modellate sulle rispettive culture locali.
© www.chiesa
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Sinodo o collegio? Il traduttore corregge il Papa
di Sandro Magister (30/06/2013)
Nella terza e ultima parte dell’omelia pronunciata nella festa dei santi Pietro e Paolo, alla presenza di rappresentanti del patriarcato ecumenico di Costantinopoli, Francesco ha citato tre volte la “Lumen gentium”, la costituzione del Concilio Vaticano II sulla Chiesa.
La prima citazione era tratta dal paragrafo 18, che “come oggetto certo di fede” ripropone “la dottrina della istituzione, della perpetuità, del valore e della natura del sacro primato del romano pontefice e del suo infallibile magistero”.
La seconda era tratta dal paragrafo 19, che ricorda come Gesù costituì gli apostoli “dando loro la forma di collegio, cioè di un gruppo stabile, del quale mise a capo Pietro, scelto di mezzo a loro”.
La terza era tratta dal paragrafo 22, che ribadisce che “il collegio o corpo episcopale non ha autorità, se non lo si concepisce unito al pontefice romano, successore di Pietro, quale suo capo, e senza pregiudizio per la sua potestà di primato su tutti, sia pastori che fedeli”.
Nell’intera costituzione “Lumen gentium” non si fa menzione dell’istituzione denominata sinodo dei vescovi. Anzi, la stessa parola “sinodo” quasi neppure c’è. Vi ricorre una sola volta, come sinonimo del concilio ecumenico stesso.
Del sinodo dei vescovi, in tutti i documenti del Vaticano II si parla brevemente: soltanto nel paragrafo 5 del decreto “Christus Dominus” sulla missione pastorale dei vescovi. Dove si legge:
“Una più efficace collaborazione al supremo pastore della Chiesa la possono prestare, nei modi dallo stesso romano pontefice stabiliti o da stabilirsi, i vescovi scelti da diverse regioni del mondo, riuniti nel consiglio propriamente chiamato sinodo dei vescovi. Tale sinodo, rappresentando tutto l’episcopato cattolico, è un segno che tutti i vescovi sono partecipi in gerarchica comunione della sollecitudine della Chiesa universale”.
È accaduto però che papa Francesco, nel pronunciare la terza parte della sua omelia, sia sia distaccato in tre punti dal testo scritto. E abbia preferito dire “sinodo dei vescovi” invece che “collegio dei vescovi”, e “sinodalità” invece che “collegialità”.
Ecco qui di seguito la trascrizione integrale di questa terza parte dell’omelia, con sottolineate le aggiunte orali al testo scritto:
“Confermare nell’unità. Qui mi soffermo sul gesto che abbiamo compiuto. Il Pallio è simbolo di comunione con il Successore di Pietro, ‘principio e fondamento perpetuo e visibile dell’unità della fede e della comunione’ (Conc. Ecum Vat. II, Cost. dogm. sulla Chiesa Lumen gentium, 18). E la vostra presenza oggi, cari Confratelli, è il segno che la comunione della Chiesa non significa uniformità. Il Vaticano II, riferendosi alla struttura gerarchica della Chiesa afferma che il Signore ‘costituì gli Apostoli a modo di collegio o gruppo stabile, a capo del quale mise Pietro, scelto di mezzo a loro’ (ibid., 19). Confermare nell’unità: il Sinodo dei Vescovi, in armonia con il primato. Dobbiamo andare per questa strada della sinodalità, crescere in armonia con il servizio del primato. E il Concilio continua: ‘questo Collegio, in quanto composto da molti, esprime la varietà e universalità del Popolo di Dio’ (ibid., 22). Nella Chiesa la varietà, che è una grande ricchezza, si fonde sempre nell’armonia dell’unità, come un grande mosaico in cui tutte le tessere concorrono a formare l’unico grande disegno di Dio. E questo deve spingere a superare sempre ogni conflitto che ferisce il corpo della Chiesa. Uniti nelle differenze: non c’è un’altra strada cattolica per unirci. Questo è lo spirito cattolico, lo spirito cristiano: unirsi nelle differenze. Questa è la strada di Gesù! Il Pallio, se è segno della comunione con il Vescovo di Roma, con la Chiesa universale, con il Sinodo dei Vescovi, è anche un impegno per ciascuno di voi ad essere strumenti di comunione”.
Non è la prima volta che papa Jorge Mario Bergoglio fa capire d’essere intenzionato a rafforzare il ruolo del sinodo dei vescovi.
Ma questa volta si è espresso oralmente in una forma che – se messa per iscritto in anticipo – avrebbe fatto alzare il sopracciglio a qualche revisore della congregazione per la dottrina della fede. Perché un sinodo dei vescovi, istituto parziale e transeunte, non è la stessa cosa del collegio episcopale universale, costitutivo da sempre e per sempre della struttura della Chiesa.
Così, quando il traduttore ufficiale in francese dell’omelia di papa Francesco, arrivato all’ultima riga della terza parte si è imbattuto in questa approssimazione, gli è scappato di… correggere il papa, mettendo tra parentesi la traduzione letterale accompagnata da un punto interrogativo:
“… avec le Collège (Synode?) des évêques…”.
Ai giornalisti accreditati presso la sala stampa vaticana, la prima versione in francese dell’omelia del papa è arrivata così come sopra, poco dopo la fine della celebrazione.
Solo più tardi, quando l’omelia è comparsa nel sito del Vaticano, la versione francese è apparsa pulita, senza più la glossa del traduttore.
“… avec le Synode des évêques…”.
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anticattocomunismo · 11 years ago
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Che n'è del Primato di Pietro?
I prodromi
Il 21 novembre 1964, per la chiusura del terzo periodo del Concilio ecumenico, Paolo VI afferma: « La realtà della Chiesa non si esaurisce nella sua struttura gerarchica, nella sua liturgia, nei suoi sacramenti, nei suoi ordinamenti giuridici » ...il che segna sostanzialmente il passaggio da una Chiesa, vista come gerarchica, come società perfetta, a una Chiesa vista come comunione di fratelli. Da una Chiesa sempre tesa a difendere i suoi spazi e i suoi diritti, a una Chiesa che vuole essere solo lievito nella pasta. Lievito all’interno delle sue strutture, lievito all’interno delle altre religioni. Da una Chiesa vista come chiusa in se stessa preoccupata della sua conservazione – ma così era realmente? –  a una Chiesa come comunità aperta al mondo, popolo di Dio in cammino. Un principio che gli sembrò doversi esplicare in quanto fin allora implicito nell’ecclesiologia cattolica fu quello della collegialità, divenuto uno dei maggiori criteri di riforma della Chiesa.
Il problema nasce dalla contraddizione tra la democratizzazione che scaturisce da questa nuova visione di Chiesa e la sua costituzione divina. Viene inadeguatamente applicato alla Chiesa il principio che regola le comunità civili, ignorando la differenza tra esse e Chiesa di Cristo: le comunità civili prima si pongono in essere e poi si danno e formano il proprio governo. In ciò esercitano la loro libertà, mentre in esse stesse si fonda originariamente e fontalmente ogni giurisdizione comunicata alle autorità sociali. Al contrario, la Chiesa non si è data da se stessa né ha formato da sé stessa il suo governo, ma è stata fondata in toto da Cristo il cui disegno preesiste all’esistenza stessa dei fedeli. La Chiesa è dunque una società sui generis in cui il capo è anteriore alle membra e l’autorità viene prima della comunità.[1]
Quindi una dottrina che ponga la sua base nel popolo di Dio democraticamente concepito e nel sentimento e nell’opinione del popolo di Dio, è antitetica a quella della Chiesa dove l’autorità non è chiamata ma chiama, e dove tutti i membri sono servi di Cristo, obbligati al precetto divino.
Sui poteri del Pontefice e sul suo rapportarsi alla collegialità dunque molto influisce l’ambiguità della Lumen Gentium  alla quale Paolo VI, messo sull'avviso dai Padri del Coetus Internationalis Patrum, cercò di rimediare con la Nota Praevia stesa sotto la supervisione del Cardinal Ottaviani. E tuttavia tale nota, con molta coerenza progressista posta in calce alla Costituzione, viene sistematicamente "saltata" essendo, appunto, "praevia"...
La Chiesa è per sua natura gerarchica. E il Papa (CIC, can.331), in virtù della sua funzione di Vicario di Cristo, ha nella Chiesa un potere ordinario supremo, pieno, immediato e universale, che può sempre esercitare liberamente. Il potere gli deriva dalla sua funzione e non da una sorta di presidenza del collegio episcopale. Del resto, il can. 1404 recita: Prima Sedes a nemine iudicatur.
La dottrina del Vaticano I e del Vaticano II nella Nota praevia definisce il Papa principio e fondamento dell’unità della Chiesa, giacché è conformandosi a lui che i vescovi si conformano tra di loro. Non è possibile poggino la loro autorità su un principio immediato che sarebbe comune alla loro potestà e a quella papale. Ora con l’istituzione delle Conferenze episcopali e con gli organismi Sinodali la Chiesa è un corpo policentrico a vari livelli nazionali o provincie locali. Conseguenza immediata è un allentamento del vincolo di unità che si manifesta con ingenti dissensi su punti gravissimi.
La nuova ecclesiologia conciliare sancita da Lumen Gentium si armonizza con la “Pastor æternus” circa la giurisdizione universale del Romano Pontefice (n.18), però azzarda un avventuroso allargamento di questa mediante la dottrina della collegialità vescovile come organo di governo accanto e analogo a quello del Sommo Pontefice (nn.19, 22). Nonostante la “Nota esplicativa previa”, mons. Gherardini osserva che « dottrina della Chiesa è quanto la sua Tradizione, dagli Apostoli sino ad oggi, presenta e propone come tale: la collegialità non ne fa parte ».
Lumen Gentium, al n.19 dichiara: « Il Signore Gesù, dopo aver pregato il Padre, chiamò a sé quelli che egli volle, e ne costituì dodici perché stessero con lui e per mandarli a predicare il regno di Dio (cfr. Mc 3,13-19; Mt 10,1-42); ne fece i suoi apostoli (cfr. Lc 6,13) dando loro la forma di collegio…»
Non mancano perplessità, nelle posizioni più tradizioniste, se si pensa che il termine “collegio” per designare l'episcopato non ricorre né nella Sacra Scrittura né nella Tradizione della Chiesa antica. Apostoli vuol dire ‘mandati’: il Signore li manda due a due non in "collegio"... C’è anche da osservare che il “collegio” si fonda su una potestà giuridica e morale, mentre si diviene vescovi per via sacramentale, ovvero mediante un quid che è nel contempo fisico e mistico come lo è l'unità della Chiesa.
La collegialità, per effetto della creazione di strutture sovra diocesane come le Conferenze Episcopali, rischia di diminuire non solo l'autorità del pontefice ma anche quella dei singoli vescovi nelle loro diocesi. Inoltre non è peregrina l'osservazione che se i vescovi, per diritto divino, costituiscono un vero e permanente collegio in senso stretto, con a capo il romano pontefice, ne deriva come prima e non unica conseguenza che la chiesa in modo abituale dovrebbe essere governata dal Papa con il collegio episcopale. In altre parole, il governo della Chiesa, per diritto divino, non sarebbe monarchico e personale, ma collegiale. È Giovanni Paolo II che ha inserito la collegialità nel nuovo Codice di Diritto Canonico trasformandola così in legge (Costituzione Apostolica Sacrae disciplinae leges, 25 gennaio 1983).
In effetti si manifesta una duplice inconciliabilità nel principio del rapporto tra Primato e collegialità. Basti pensare alla tesi dell’unico soggetto (collegio dei vescovi e romano pontefice) e i dati del magistero che, pur senza posizioni dichiarative parlano di due distinti soggetti (LG 22). All’interno stesso di questa suddivisione, la stessa inconciliabilità si coglie tra le esigenze metafisiche dell’autorità nella vita sociale e la realtà ecclesiale compresa alla luce della rivelazione cristiana.
Lumen Gentium, al n. 22 evidenzia una tensione che, ultimamente, manifesta la difficoltà di « collocare all'interno di una concezione collegiale  del ministero episcopale che scaturisce da un'ampia prospettiva storico-salvifica della Chiesa come communio la dottrina del Vaticano I, la quale si distingue per una visione della Chiesa apologetica, giuridica  e astorica ed inoltre concentrata sul Papa ».
La Chiesa in tutte le epoche risente di -ismi di vario genere, dai quali la sua, che è anche la nostra, storia terrena non è mai esente. Ma assolutizzare certi aspetti per giustificare la rivoluzione Copernicana operata dal concilio è stata un’operazione prevenuta e ideologica. Di certo era necessario aggiornare ciò che era rinnovabile e meglio organizzabile, non rifondare la Chiesa.
Si pretende dunque che la visione Chiesa-comunione sia la scoperta del Vaticano II e vada a sostituirsi a quella di società perfetta ed oggi appare dominante come se più vicina alle assonanze bibliche  specificamente neotestamentarie, come se potesse finalmente sintetizzare alla perfezione tutto il rapporto con Dio fino al concilio non esattamente compreso. Ma il rischio più grande è quello di ricondurre tutto ad un'interpretazione puramente psico-sociologica, ai bisogni e alle attese umane. Acquista valore la Chiesa locale, come se l’universalità della Chiesa e tutto il suo mistero prima del concilio non le appartenesse a pieno titolo.
Possibile che nessuno abbia mai detto a costoro che la Chiesa, fin dal suo nascere ad opera del Salvatore, se non fosse stata e rimasta “comunione” dei Suoi in Lui, non sarebbe mai stata LA Chiesa?
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1. Romano Amerio. Iota unum, Lindau 2009, 470
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cristianesimocattolico · 11 years ago
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Papa bianco e nero
La collegialità, mito progressista, va bene, ma Bergoglio poi decide da solo. Stile gesuita e governo.
di Matteo Matzuzzi (20/06/2013)
Ben vengano la collegialità episcopale e la sinodalità, ma quando si tratta di assegnare prelati a qualche ufficio curiale di peso o di nominare vescovi in sedi rimaste vacanti, a decidere è il Papa. Senza consultazioni né dossier. E’ stato così per Buenos Aires, dove Bergoglio ha mandato come suo successore Mario Aurelio Poli, il vescovo di Santa Rosa della Pampa che non compariva nella lista al vaglio della Congregazione che sovrintende all’episcopato mondiale. Copione che si è ripetuto identico qualche giorno fa, quando monsignor Battista Ricca (diplomatico e direttore della Casa di Santa Marta) è stato nominato nuovo prelato dello Ior. Una decisione presa dalla commissione cardinalizia di vigilanza dell’Istituto, ma che “è stata approvata” personalmente dal Papa. In entrambi i casi, Francesco ha scelto persone che conosceva e di cui si fidava. E anche quando si è trattato di selezionare i membri del gruppo che lo aiuterà a governare la chiesa universale e a riformare la curia, Bergoglio ha fatto di testa sua: otto cardinali, uno per area geografica, chiamati a rispondere soltanto a lui. Nessun presidente, ma solo un coordinatore, un primus inter pares scelto nella persona del fidatissimo cardinale Oscar Andrés Rodríguez Maradiaga, salesiano honduregno in prima fila nelle battaglie sociali. 
“Il Papa resta un monarca assoluto”
Se avesse seguito i suggerimenti emersi nelle congregazioni del pre Conclave, ha scritto recentemente il vaticanista dell’Espresso Sandro Magister, “il consiglio della corona l’avrebbe trovato già bell’e pronto. Gli sarebbe bastato chiamare attorno a sé i dodici cardinali, tre per continente, eletti al termine di ogni sinodo”. Certo, spiega al Foglio lo storico del cristianesimo Giovanni Filoramo, docente all’Università di Torino, “l’apertura collegiale che si coglie dall’istituzione di quella commissione è senz’altro una novità. Ma il Papa rimane sempre un monarca assoluto che non deve rendere conto a nessuno. Non può abdicare a decisioni che dipendono solo da lui. E’ indubbio come ci siano questioni che richiedono una decisione esclusiva, altrimenti si rischia l’ingovernabilità”. Alberto Melloni, erede di Giuseppe Alberigo ed esponente di punta della Scuola di Bologna, auspicava nelle settimane successive alla rinuncia di Benedetto XVI l’attuazione di ciò che gli ultimi papi non avevano mai fatto: la collegialità sancita dal Concilio. Non un monarca, ma il motore della comunione ecclesiastica, diceva Melloni. Ma decidere collegialmente le nomine particolari e locali, nota Filoramo, sarebbe complicato.
Lo storico dell’Università di Torino non vede inoltre alcun contrasto tra l’aspirazione collegiale più volte manifestata da Francesco e il suo decidere in solitudine, consultando solo pochi amici fidati. Piuttosto, si domanda, “non è che questo stile di governo rispecchia i due aspetti tipici del modello tradizionale gesuita?”. D’altronde, aggiunge, “la Società di Gesù è diventata un ordine cattolico a livello universale attraverso una politica centralizzatrice unita alla messa in pratica di una certa collegialità. I gesuiti sono un ordine politico, sono celebri per la capacità di adattarsi alle situazioni culturali tra loro più distanti”. E Bergoglio potrebbe trasporre su scala universale il modello ignaziano: “La Società è un’esperienza di gestione del potere accentrato, sul modello del Papato. Va detto però – continua Filoramo – che l’elemento collegiale è sempre stato presente. Basti pensare al ruolo dei Padri generali: potenti ma consapevoli della necessità di dare autonomia, perché non si può governare solo dal centro”.
Più cauto è in questo senso il professor Daniele Menozzi, ordinario di Storia contemporanea alla Scuola Normale Superiore di Pisa: “Il suo essere gesuita più che nello stile di governo lo si vede sotto il profilo spirituale. E’ una spiritualità che ha segnato profondamente tutta la chiesa, in particolare quella contemporanea. L’elemento interessante – sottolinea Menozzi – è il fatto che Bergoglio ne dà un’interpretazione tutta sua, come sulla povertà. Lui insiste sul volere una chiesa per i poveri, mentre in passato nella Compagnia c’erano stati settori che evocavano una chiesa dei poveri”.  
Per quanto attiene le linee effettive di governo, dice al Foglio lo storico autore di numerosi libri sulla chiesa contemporanea, “bisogna attendere. Bergoglio sta ancora cercando di capire l’ambiente in cui si muove, le dinamiche che deveo affrontare. Si può già dire, però, che il Papa agisce su due livelli: per quanto riguarda le scelte che è chiamato a compiere tempestivamente, è inevitabile che si assuma la responsabilità diretta, senza consultare l’episcopato locale. Ci sono poi, però, gli aspetti che attengono al governo della chiesa universale. E qui Francesco ha già dimostrato di voler tenere conto delle indicazioni che gli giungeranno dall’insieme della chiesa” per procedere alla riforma  della curia che ha in mente.
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cristianesimocattolico · 12 years ago
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Papa in quanto Vescovo o Vescovo in quanto Papa? A proposito di una frase del cardinale Kasper
di Paolo  Pasqualucci (10/05/2013)
1.  “Il Papa è tale proprio in quanto vescovo di Roma”?  Dopo l’elezione di Sua Santità Francesco, felicemente regnante, si è speculato sul fatto che, nelle sue prime dichiarazioni pubbliche, egli abbia posto in rilievo l’attributo di “vescovo di Roma” del Romano Pontefice.  Ciò ha fornito lo spunto per ascrivergli l’intenzione di considerare il munus petrino in modo più “collegiale” rispetto al passato, appunto nello spirito del Vaticano II.  Nella sua prima dichiarazione Papa Francesco, ha anche detto che la Chiesa di Roma è “madre di tutte le chiese”, titolo con il quale si indicava in passato la primazìa della Chiesa cattolica, apostolica e romana su tutte le altre.  Ma questo richiamo alla Tradizione è passato inosservato.  Successivamente, dopo la nomina di otto cardinali non di Curia quali consiglieri nei suoi compiti di governo, si è ulteriormente speculato sull’indirizzo “collegiale” che il Pontefice sembrerebbe voler  imprimere al governo della Chiesa.  In quest’occasione, la stampa ha riportato alcune dichiarazioni di Sua Eminenza il cardinale Walter Kasper, tra le quali ha colpito la frase seguente:  “È importante e significativo che Francesco abbia continuato a definirsi vescovo di Roma:  del resto non è una diminuzione né un attributo accidentale, il Papa è tale proprio in quanto vescovo di Roma” (Corriere della Sera, 14.4.2013, p. 17. Corsivo mio). 
2.  La dottrina tradizionale:  CIC 1917 c. 218 e 219. Mi sono chiesto: quando Nostro Signore risorto, di fronte ad altri sei Apostoli, dopo avergli chiesto se lo amava, conferì al Beato Pietro il potere di giurisdizione su tutta la Chiesa, ordinandogli: “Pasci i miei agnelli, pasci le mie pecore” (Gv 21, 15-17), Pietro era forse già “vescovo”?  Sappiamo bene di no. Tant’è vero che nei tempi più antichi non era necessario esser vescovi per esser eletti al Sacro Soglio. E nemmeno sacerdoti, se semplici diaconi potevano diventare Papi. E che non ci fosse nessuna preclusione in questo senso, risulta ancora dal Codice di Diritto Canonico (CIC) del 1917, il quale stabilisce che la “potestas” acquisita dal Papa accettando l’elezione “è veramente episcopale [vere episcopalis], ordinaria e immediata sia nei confronti di tutte e singole le chiese che di tutti e singoli pastori e fedeli, indipendente da qualsivoglia autorità umana” (c. 218.2). Come a dire: il neoeletto acquista sì la potestà di giurisdizione del vescovo ma su tutta la Chiesa. L’acquista immediatamente, accettando l’elezione, per il solo fatto dell’accettazione.  Ma qualcuno avrebbe potuto chiedersi: trattandosi di una potestà “veramente episcopale” ossia della “potestà di giurisdizione del vescovo”, deve allora il neoeletto esser già vescovo prima di esser scelto come Papa o deve diventarlo subito, non appena eletto, per poterla esercitare?  Il CIC del 1917 tace del tutto sul punto.  E si capisce perché, andando al successivo c. 219. Che così recita: “Il Romano Pontefice, eletto in modo legittimo, non appena accettata l’elezione, ottiene, di diritto divino, la piena e suprema potestà di giurisdizione [statim ab acceptata electione, obtinet, iure divino, plenam supremae iurisdictionis potestatem]”. Il concetto chiave sembra rappresentato dall’inciso “di diritto divino”. Che significa? La domanda è più che legittima, oggi, visto che quest’inciso è scomparso sia dai testi del Concilio che trattano della collegialità e del Primato, sia dal nuovo CIC, del 1983. Il senso più ovvio sembra essere il seguente: la suprema potestà di giurisdizione su tutta la Chiesa, il neoeletto non l’ottiene per delega di poteri da chi l’ha eletto, come se i vescovi del collegio cardinalizio che lo hanno votato gli delegassero il loro potere di giurisdizione autorizzandolo ad esercitarlo su tutta la Chiesa. Non la ottiene in questo modo perché è Nostro Signore stesso a conferirgliela, così come l’ha inizialmente conferita al Beato Pietro, con il quale il validamente eletto si trova in successione continua e legittima, garantita dalla continuità dottrinale. Al solo Pietro Gesù Cristo risorto volle dare il potere di governo sull’intero gregge, Apostoli compresi. Altrimenti avrebbe detto: “pascete i miei agnelli”. Dalla Scrittura e dalla Tradizione risulta che Egli fece Pietro capo di tutta la Chiesa simpliciter, non del solo “Collegio degli Apostoli” o di tutta la Chiesa in quanto Capo del “Collegio degli Apostoli”.  E proprio per questo il Papa è il “Vicario di Cristo” in terra:  gode di un potere “vicario” ossia del potere di Cristo di governare il gregge, delegatogli da Cristo stesso.  Un potere “vicario” è un potere che si esercita su mandato di un altro, che ne è il vero detentore, e in sua rappresentanza.  Il “vicario” è un sostituto.  E difatti, Cristo Nostro Signore è il Capo effettivo della Chiesa visibile ed invisibile, cioè del corpo mistico di Cristo, realtà nello stesso tempo terrena e celeste.  Colui che ne è il “vicario”, esercitando in sua vece il potere di governo della Chiesa in questo mondo, dovrà aver ricevuto questo potere dal titolare effettivo, non da altri.  Per fare un esempio: nella diocesi di Roma il “cardinal vicario” esercita le funzioni di governo del vescovo in rappresentanza del Papa, che è l’effettivo vescovo di Roma:  gode quindi di un potere “vicario” conferitogli dal Papa uti singulus non dal collegio dei cardinali o dal “collegio episcopale” tramite la conferenza episcopale. 
Il Vicario di Cristo possiede quindi la suprema potestà di giurisdizione esclusivamente per mandato di Cristo, ossia “per diritto divino”.  Il fatto che in passato, se il neoeletto non era vescovo, si procedesse a consacrarlo non deve trarre in inganno.  Il neoeletto non doveva aspettare quella consacrazione per esercitare la suprema giurisdizione su tutta la Chiesa.  Egli era perfettamente legittimato a quell’esercizio, immediatamente dal momento dell’accettazione, con la quale otteneva la piena titolarità del potere di giurisdizione.  E difatti, storicamente, non sono mancati esempi di Papi non vescovi al momento dell’elezione che hanno subito esercitato la giurisdizione su tutta la Chiesa, prima della successiva consacrazione all’episcopato. 
3. Il vescovo di Roma è tale in quanto è il Papa. Come si spiega allora la dichiarazione del cardinale Kasper? Essa sembra far dipendere l’esser-Papa, se così posso dire, dall’esser-vescovo, come se lo stato episcopale fosse una conditio sine qua non per l’elezione al Pontificato.  La frase del cardinale Kasper riflette il CIC del 1983, che a sua volta rispecchia le novità dottrinali emerse nel pastorale Vaticano II.  Si tratta della nuova concezione della “collegialità”, che tante critiche ha suscitato e ancora suscita.  Essa è stata accusata di aver reso ambiguo e poco chiaro il rapporto tra il Pontificato e l’episcopato.  Se l’affermazione del cardinale Kasper è coerente con quanto insegnato dal Vaticano II sul punto, allora non hanno ragione quelli che criticano la nuova collegialità?  Come si fa, infatti, a dire che “il Papa è tale proprio in quanto vescovo di Roma”? Sarà caso mai vero il contrario:  che il vescovo di Roma è tale proprio in quanto è il Papa.  Per restare agli ultimi Pontefici, essi, quando furono eletti, non erano certo già “vescovi di Roma”. Non potevano esserlo, essendo quell’ufficio riservato appunto al Papa regnante. E dopo l’elezione, sono forse rimasti vescovi delle loro sedi originarie o sono diventati “vescovi di Roma”?  Sono diventati vescovi di Roma, l’ufficio spettava loro di diritto in quanto Papi.  Mi sembra più esatto dire, allora, che il vescovo di Roma è tale proprio in quanto è il Papa, cioè in quanto “Episcopus totius Ecclesiae”, come si diceva una volta.  Espressione che non rappresentava un semplice titolo onorifico ma indicava il carattere veramente episcopale della suprema potestà di giurisdizione del Romano Pontefice su tutta la Chiesa. 
4. La nuova dottrina: CIC 1983, cc. 330-332. Forse l’affermazione del cardinale Kasper rispecchia solamente una sua personale opinione?  Per cercare di capire come stanno le cose, vediamo sinteticamente cosa dice il CIC del 1983, che, come si è ricordato, recepisce la nuova dottrina proposta dalla costituzione Lumen Gentium sulla Chiesa (artt. 18-22), riportandone brani interi.  Nella LG  si ribadisce il Primato ma nello stesso tempo si presenta il Romano Pontefice  soprattutto come Capo del Collegio episcopale, cosa nuova.  Nell’art. 22:  Il collegio dei vescovi e il suo capo, si trova la famosa frase:  “ l’ordine dei vescovi […] è anch’esso insieme col suo capo il romano Pontefice e mai senza questo capo il soggetto di una suprema e piena potestà su tutta la Chiesa, sebbene tale potestà non possa esser esercitata se non col consenso del romano Pontefice” (LG 22.2).  Ciò significa, come è stato più volte e con forte preoccupazione rilevato, che i titolari della suprema potestà di giurisdizione su tutta la Chiesa sono ora addirittura  d u e :  il Papa uti singulus e il Collegio con il Papa (non il Papa con il Collegio).  E  d u e  sono pure gli esercizi di essa:  quello indipendente del Papa uti singulus e quello del Collegio, con l’autorizzazione del Papa.  Il Collegio è con il Papa quanto alla titolarità della suprema potestà, sotto il Papa  quanto al suo esercizio.  La ricerca insistita e quasi ossessiva del Vaticano II per l’unità e la comunione universali sembra per ironia della sorte aver partorito inestricabili dualismi:  due organi titolari della suprema potestà e due modi di esercitarla, due liturgie della S. Messa.
Applicando, dunque, l’impostazione del Concilio, il CIC non tratta mai del Pontefice da solo, indipendentemente dal Collegio.  Come acquista il Pontefice neoeletto la suprema potestà di giurisdizione su tutta la Chiesa?  L’argomento è trattato al c. 332.1 CIC 1983.  “Il Sommo Pontefice ottiene la potestà piena e suprema sulla Chiesa con l’elezione legittima, da lui accettata, insieme con la consacrazione episcopale [legitima electione ab ipso acceptata una cum episcopali consecratione].  Di conseguenza l’eletto al sommo pontificato che sia già insignito del carattere episcopale ottiene tale potestà dal momento dell’accettazione.  Che se l’eletto fosse privo del carattere episcopale, sia immediatamente ordinato vescovo” [Quare, eandem potestatem obtinet a momento acceptationis electus ad summum pontificatum, qui episcopali charactere insignitus est. Quod si charactere episcopali electus careat, statim ordinetur Episcopus”].
5. La “consacrazione episcopale” condizione dell’acquisizione della suprema potestà?  L’impressione immediata che questo canone fa sul semplice credente, è la seguente:  ottiene la suprema potestà al momento dell’accettazione solo chi è già vescovo; chi ancora non lo è non può ottenerla, se prima non sia stato consacrato vescovo.  È ammissibile quest’interpretazione?  Vediamo.  L’elemento nuovo rispetto al passato sembra rappresentato dal fatto che il neoeletto, con l’accettazione, oltre alla piena e suprema potestà su tutta la Chiesa ottiene anche, contestualmente, “la consacrazione episcopale”.  Non si ripete il concetto del CIC 1917, secondo il quale la suprema potestà del Papa è intrinsecamente, di diritto divino, “veramente episcopale”, anche se il neoeletto non è vescovo.  Si fa capire, invece, che con l’accettazione il neoeletto ottiene per ciò stesso anche “la consacrazione episcopale”.  Ma vien fatto di chiedersi:  che bisogno ha il neoeletto di ottenere una contestuale consacrazione episcopale quando diventa addirittura Sommo Pontefice, possedendo per ciò stesso il potere di giurisdizione del vescovo su tutta la Chiesa?  E perché il testo non ripropone la dottrina chiara e semplice del CIC del 1917? Il rimanente del c. 332 riesce a far luce sul punto? Se ne ricava che:  se il neoeletto era già vescovo, non deve ovviamente esser “ordinato” vescovo e “ottiene tale potestà [su tutta la Chiesa] dal momento dell’accettazione”.  Se non era vescovo, cosa succede? L’ottiene ugualmente dal momento dell’accettazione?  Il testo non lo dice.  Afferma invece: “sia immediatamente ordinato vescovo”.  E perché?  Non lo si spiega.  Perché questo “immediatamente”?  Perché tanta fretta?  Se non si vuol lasciare il discorso come tronco e sospeso per aria,  la conclusione più logica non sembra  esser proprio quella sopra avanzata?  E cioè che il neoeletto che non sia vescovo deve esser subito consacrato vescovo proprio per ottenere la suprema potestà?  Per ottenerla, non semplicemente per esercitarla.  Deve esser subito inserito nel Collegio, del quale è il Capo, se deve esser Papa. 
6.  Il Papa capo della Chiesa in quanto capo del Collegio?  L’interpretazione qui avanzata sembra troppo audace? Consideriamo in che modo i due canoni precedenti rappresentano la figura del Papa. Il CIC sta qui definendo “la suprema autorità della Chiesa”, a cominciare da “Il Romano Pontefice e il Collegio dei Vescovi”.  Come si è detto, il Pontefice viene sempre strettamente collegato al Collegio.  Infatti, il CIC non ne definisce la figura in sé e per sé per poi illustrarne il rapporto gerarchico con i vescovi, a lui sottoposti sul piano della giurisdizione (come faceva il CIC del 1917, p.e. ai cc. 329-331).  Al contrario, presenta sin dall’inizio il Papa in stretta connessione o comunione con il “collegio”: degli Apostoli prima, dei Vescovi poi.  Recita infatti il c. 330, riportando  integralmente l’inizio di LG 22.1:
“Come, per volontà del Signore, san Pietro e gli altri Apostoli costituiscono un unico Collegio, per la medesima ragione il Romano Pontefice, successore di Pietro, ed i Vescovi, successori degli Apostoli, sono tra di loro congiunti [Sicut, statuente Domino, sanctus Petrus et ceteri Apostoli unum Collegium constituunt, pari ratione Romanus Pontifex, successor Petri, et Episcopi, successores Apostolorum, inter se coniunguntur]”.  Ricalcando il Vaticano II, mi sembra che si voglia qui stabilire un concetto preliminare e nello stesso tempo fondamentale della nuova dottrina:  l’unità del collegio, nella quale sono ricompresi il Papa e i vescovi come in un tutto.  Prima di ogni cosa viene il collegio come unità, che si vuol vedere attualmente presente nella Chiesa per analogia con l’unità  che sarebbe stata inizialmente presente nel Collegio apostolico.  Ma quest’impostazione, mi chiedo, è conforme all’insegnamento tradizionale della Chiesa? Non vi compare alcun rapporto gerarchico tra Pietro e gli Apostoli e quindi tra il Papa e i vescovi.  La conclamata unità sembra mettere tutti sullo stesso piano.  Il che non sarebbe conforme a quanto risulta dalla Scrittura.  E un’unità di questo tipo, che già farebbe del “collegio” un soggetto autonomo con un Capo che sarebbe tale in quanto compreso nell’unità del collegio, viene fatta risalire a Nostro Signore:  “Sicut, statuente Domino…”.  Ma la volontà del Signore che appare nei Vangeli, confermata sin dall’inizio dalla Tradizione della Chiesa,  ha “statuito” davvero  in questo senso?
Il Signore voleva sì che gli Apostoli fossero sempre uniti tra di loro come fratelli e in spirito di umiltà e li rimprovera quando, spinti dall’ambizione dei parenti, tentano di stabilire preferenze e gerarchie tra di loro (Mt 20, 20-28).  Ma si tratta sempre di un’unione morale, spirituale, fondata sull’insegnamento e l’esempio del divino Maestro e dipendente dalla sua guida, non dell’unione paritaria di un collegio, organo che prevale sull’individualità dei suoi componenti.  Inoltre, durante la sua missione terrena Nostro Signore preannuncia il primato di Pietro (Mt 16, 13 ss.; Lc 22, 31-32), e glielo conferisce in modo ufficiale una volta risorto dai morti.  E Pietro non la esercitò subito questa sua potestà di giurisdizione su tutta la Chiesa nascente, come risulta da ben noti passi degli Atti degli Apostoli (At 1, 21; 2, 14 ss.; 5, 1-11; 15, 8 ss.)?
Ma il CIC del 1983, stabilita preliminarmente l’unità del “collegio” nel modo visto, nel c. 331 sembra voler riferire l’ufficio del Papa costantemente al “collegio”:  “Il Vescovo della Chiesa di Roma [Ecclesiae Romanae Episcopus], in cui permane l’ufficio [munus] concesso dal Signore singolarmente a Pietro, primo degli Apostoli [primo Apostolorum], e che deve essere trasmesso ai suoi successori, è capo del Collegio dei Vescovi, Vicario di Cristo e Pastore qui in terra della Chiesa universale; egli perciò [qui ideo], in forza del suo ufficio, ha potestà ordinaria suprema, piena, immediata e universale sulla Chiesa, potestà che può sempre esercitare liberamente”.  Il canone mette insieme due passaggi di LG tratti dai par. 20.3 e 22.2.  Unica aggiunta, se non vado errato:  l’apposizione del titolo di “vescovo di Roma” all’inizio. Gli elementi essenziali di questa definizione del papato sembrano essere i seguenti:  1. Nel “vescovo di Roma” permane “l’ufficio concesso dal Signore a Pietro, primo degli Apostoli”.  Non si usa l’espressione tradizionale “Principe degli Apostoli”, ben più forte.  Il testo non dice che il munus petrino permane nel Papa:  permane nel “vescovo di Roma”, come se appunto l’esser vescovo di Roma fosse elemento costitutivo del papato.  2. Non si chiarisce quale sia “l’ufficio” che il Signore ha concesso singolarmente a Pietro, “primo degli Apostoli”.  Si tratta forse della potestà di giurisdizione su tutta la Chiesa?  Così dovrebbe essere, visto che tale potestà è richiamata espressamente alla fine del canone.  Tuttavia,  3. il testo si premura di affermare che Pietro è “capo del Collegio dei Vescovi”, prima ancora che “Vicario di Cristo e Pastore qui in terra della Chiesa universale”.  È in forza del suo “ufficio”, che vede però al primo posto l’esser “capo del Collegio dei Vescovi”, che il Papa possiede la suprema potestà di giurisdizione.  4. E nell’espressione: “ufficio concesso dal Signore singolarmente a Pietro” dovremmo forse vedere una ripresa del concetto dell’origine “iure divino” della sua potestà di giurisdizione?  Ma se così è perché non dire allora, in modo molto più semplice ed accessibile, che “nel vescovo di Roma permane di diritto divino la suprema potestà di giurisdizione su tutta la Chiesa concessa dal Signore singolarmente a Pietro”?  O, meglio ancora, che “nel Romano Pontefice permane di diritto divino etc.”?  Ma qui i concetti tradizionali del Primato e la nuova dottrina della collegialità non sembrano annodarsi in un vero e proprio groviglio?  La suprema potestà del Papa, pur risultando, come da Tradizione, “concessa dal Signore singolarmente a Pietro”, appare nello stesso tempo legittimata dal fatto che l’ufficio di Pietro è visto soprattutto come ufficio del Capo del Collegio dei Vescovi, Collegio che ne sarebbe parimenti titolare cum Petro (come recita il c. 336, riprendendo LG 22.2)! E da tutto ciò si dovrebbe concludere che Nostro Signore ha voluto istituire  d u e  soggetti quali titolari della suprema potestà, distinti anche se collegati nella figura del Papa?!
7. Si possono ignorare le mutazioni apportate dalla nuova dottrina?   Il c. 331 sembra attribuire all’esser “vescovo di Roma” un’importanza essenziale per la definizione della natura del papato:  all’esser “Vescovo di Roma” e “Capo del Collegio dei Vescovi”.  Elementi del tutto nuovi rispetto alla dottrina insegnata dal CIC del 1917.  Nel CIC del 1917 il munus petrino è completamente separato da quello episcopale, che non viene mai nominato in relazione ad esso, se non per ribadire che la potestà acquisita immediatamente dal neoeletto Pontefice è “vere episcopalis”, indipendentemente da ogni sua consacrazione a vescovo, che avveniva in un secondo tempo, per costume e prassi.  Nel CIC del 1983, invece, la “consacrazione episcopale” viene collegata alla suprema potestà di giurisdizione conferendo all’accettazione una duplice, simultanea conseguenza:   far ottenere la potestà suprema su tutta la Chiesa e la consacrazione episcopale ossia il diritto ad esser consacrato subito vescovo per chi non lo fosse.  Consacrato, al fine di poter diventare “vescovo di Roma”, membro e capo del collegio episcopale: ufficio che si vuol ora verosimilmente intendere quale requisito necessario del pontificato e non sua conseguenza dovuta, come in passato.
Se l’ “ermeneutica” qui proposta è corretta, allora possiamo dire che la peculiare affermazione del cardinale Kasper si situa senza contraddizione nel contesto del nuovo Codice di Diritto Canonico oltre che in quello della Lumen Gentium.
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