#Accadde al commissariato
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passed-out-real · 2 years ago
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Alberto Sordi Filmography Part 1
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Giarabub (1942)
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Le miserie del signor Travet (1945)
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The White Sheik (1952)
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I Vitelloni (1953)
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Accadde al commissariato (1954)
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An American in Rome (1954)
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Un eroe dei nostri tempi (1955)
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La bella di Roma (1955)
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Nero's Mistress (1956)
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Arrivano i dollari! (1957)
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pinknachowitch · 8 months ago
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#albertosordi #NinoTaranto #carlodapporto #walterchiari
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Alberto Sordi in Accadde al commissariato, regia di Giorgio Simonelli, 1954
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cutulisci · 4 years ago
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IL RISTORANTE DI ALICE Questa canzone si chiama Il Ristorante di Alice, è su Alice, e sul ristorante, ma “Alice’s Restaurant” non è il nome del ristorante, è solo il nome della canzone ed è per questo che ho chiamato la canzone Il Ristorante di Alice. Puoi avere quel che ti pare al ristorante di Alice, puoi avere quel che ti pare al ristorante di Alice, vacci a piedi e entraci, è giusto là dietro, appena un chilometro dalla ferrovia, puoi avere quel che ti pare al ristorante di Alice Ora, tutto è nato due feste del Ringraziamento fa, è stato due anni fa nel giorno del Ringraziamento, quando io ed il mio amico siamo andati a fare una visitina a Alice al ristorante, ma Alice non vive nel ristorante, vive nella chiesa vicina al ristorante, nel campanile, con suo marito Ray e il cane Fasha. E siccome vivono in quella maniera, nel campanile, hanno un sacco di spazio giù al piano di sotto dove prima ci stavano i banchi da chiesa. E siccome hanno tutto quello spazio e vedendo come hanno portato via tutti i banchi da chiesa, hanno deciso che non dovevano portare fuori la loro spazzatura per un bel po’ di tempo. Siamo saliti là sopra, abbiamo trovato tutta la spazzatura che c’era dentro e abbiamo deciso che sarebbe stato un gesto da amici portare la spazzatura alla discarica cittadina. Così abbiamo preso una mezza tonnellata di spazzatura, l’abbiamo infilata dietro un furgone Volkswagen rosso, abbiamo preso pale, rastrelli e arnesi di distruzione e abbiamo fatto rotta verso la discarica comunale. Beh, siamo arrivati là e c’era un grosso segnale e una catena tutta attorno alla discarica, che diceva “Chiuso il giorno del Ringraziamento”. Non avevamo mai sentito prima di una discarica chiusa il giorno del Ringraziamento, e con le lacrime agli occhi siamo andati via nel tramonto, cercando un altro posto dove buttare la spazzatura. Non ne abbiamo trovato nessuno, finché non siamo arrivati in una stradina laterale, e sul lato della stradina laterale c’era un altro burrone di una decina di metri, e in fondo al burrone c’era un altro mucchio di spazzatura. Abbiamo deciso che un grosso mucchio è meglio di due piccoli mucchi, e piuttosto di portare su quell’altro abbiamo deciso di buttare giù il nostro. Questo è quel che abbiamo fatto, siamo tornati alla chiesa, abbiamo fatto un pranzo di Ringraziamento assolutamente imbattibile, siamo andati a dormire e non ci siamo risvegliati che la mattina dopo, quando abbiamo ricevuto una telefonata dall’agente Obie. Ha detto, “Ragazzo, abbiamo trovato il tuo nome su una busta in fondo a mezza tonnellata di spazzatura, e volevamo giusto sapere se ne sai qualcosa.” Io gli ho risposto: “Sì, signor agente Obie, non posso mentire, ho messo io la busta sotto quella spazzatura.” Dopo aver parlato con Obie per circa tre quarti d’ora al telefono, siamo finalmente arrivati al nocciolo della questione, e lui ha detto che dovevamo scendere laggiù e raccogliere la spazzatura, e che dovevamo anche andare a parlare con lui al commissariato. E così siamo montati sul furgone Volkswagen con le pale, i rastrelli e gli arnesi di distruzione e abbiamo fatto rotta verso il commissariato di polizia. Ora, amici, c’erano solo due cose che Obie avrebbe potuto fare al commissariato, la prima era che avrebbe potuto darci una medaglia per essere stati tanto onesti e coraggiosi al telefono, cosa che non era molto probabile e che non ci aspettavamo, e l’altra era che avrebbe potuto sgridarci e dirci non farci più vedere a portare ancora in giro spazzatura per tutto il circondario, che era quel che ci aspettavamo; ma quando andammo al commissario c’era un’altra possibilità che non avevamo nemmeno preso in considerazione, e insomma fummo tutti e due arrestati. Ammanettati. E io dissi: “Obie, non penso di poter raccattare la spazzatura con queste manette addosso.” E lui: “Zitto, ragazzo. Siediti dietro sulla macchina di pattuglia.” Ed è quel che facemmo, ci mettemmo a sedere dietro sulla macchina di pattuglia e ci recammo sulla (inizio citazione) Scena del delitto (fine citazione). Voglio raccontarvi della città di Stockbridge, Massachusetts, dove tutto questo accadde, avevano tre segnali di stop, due agenti e una macchina della polizia, ma quando ci recammo sulla Scena del Delitto c’erano cinque agenti e tre macchine della polizia, dato che si trattava del peggior crimine degli ultimi cinquant’anni, e tutti volevano andare sul giornale. E stavano pure usando ogni sorta di roba da sbirri che era stata non so quanto a ciondolare inutilizzata al commissariato. Rilevavano le tracce di pneumatici col gesso, le impronte digitali, le tracce coi cani segugi, e presero pure ventisette fotografie a 8/10 colori su carta patinata con cerchetti e freccette, e una dicitura sul retro di ciascuna che spiegava come ognuna di esse avrebbe potuto essere utilizzata come prova contro di noi. Presero fotografie all’arrivo, alla partenza, del settore nord-ovest, del settore sud-ovest, per non parlare della fotografia aerea. Dopo tutto quel patire, tornammo in prigione.Obie disse che che ci avrebbe messo in cella. Disse: “Ragazzo, ti metto in cella, dammi il portafoglio e la cintura.” E io dissi: “Obie, posso anche capire che tu voglia il mio portafoglio, così non avrò soldi da spendere in cella, ma per che cazzo la vuoi, la mia cintura?” E lui disse: “Ragazzo, non vogliamo che tu ti impicchi.” Io dissi: “Obie, pensi che io mi impicchi per sparpagliamento di spazzatura?” Obie disse che voleva essere sicuro, e, amici, lo voleva sul serio perché tirò via pure la ciambella del cesso in modo che io non potessi sbattermela in testa e affogarci, e portò via anche la carta igienica perché non potessi piegare le sbarre, srotolare fuori, insomma srotolare la carta igienica fuori dalla finestra, far scivolare fuori il rotolo e evadere. Obie voleva essere sicuro, e fu quattro o cinque ore più tardi che Alice (vi ricordate di Alice? E’ una canzone su Alice), insomma Alice arrivò e con qualche paroletta un po’ incazzata a Obie ci tirò fuori di galera su cauzione, e tornammo alla chiesa facendoci un altro pranzo di Ringraziamento assolutamente imbattibile, e non ci alzammo fino alla mattina dopo, quando dovevamo tutti quanti andare in tribunale. Entrammo, ci mettemmo a sedere, Obie entrò con le ventisette fotografie a 8/10 colori su carta patinata con i cerchietti e le freccette, ognuna con una dicitura sul retro, e si mise a sedere. Un tizio entrò e disse: “Tutti in piedi.” Tutti ci alzammo in piedi, e Obie si alzò con le ventisette fotografie a 8/10 colori su carta patinata, e il giudice entrò, si mise a sedere con una guardia, si mise a sedere e noi ci mettemmo a sedere. Obie guardò il guardiano. Poi guardò le ventisette fotografie a 8/10 colori su carta patinata con cerchietti e freccette ognuna con una dicitura sul retro, e scoppiò a piangere perché Obie si rese conto che si trattava di un tipico caso di mala giustizia americana, e che non ci poteva fare nulla, e che il giudice non avrebbe guardato le ventisette fotografie a 8/10 colori su carta patinata con i cerchietti e le freccette, ognuna con una dicitura sul retro che spiegava che ciascuna avrebbe potuto essere utilizzata come prova contro di noi. Insomma ci fu appioppata una multa di 50 dollari, e dovemmo ritirare su la spazzatura sotto la neve, ma non è questo che ero venuto a raccontarvi. Ero venuto a parlare della visita di leva. C’era un palazzo giù a New York, si chiama Whitehall Street, dove entri, dove qualcosa ti viene iniettato e poi vieni ispezionato rilevato infettato scartato e selezionato abile-arruolato. Ci andai un giorno per fare la mia visita attitudinale, ed entrai, mi misi a sedere, la sera prima mi ero divertito un mondo e mi ero inciuccato e così mi sentivo al meglio, ed avevo un aspetto al meglio, quando entrai là quella mattina. Perché volevo somigliare a un tipico ragazzo americano di New York, gente, accidenti se lo volevo, volevo sentirmi come un tipico –insomma volevo essere un tipico ragazzo americano di New York, e entrai, mi misi a sedere e fui rivoltato in tutti i modi e tutte le salse, e ogni tipo di cose brutte, meschine e orribili del genere. Entrai, mi misi a sedere, e mi dettero un pezzo di carta che diceva: “Ragazzo, vai dallo psichiatra, stanza 604.” Andai su, e dissi: “Strizzacervelli, voglio uccidere. Cioè, insomma, voglio uccidere. Voglio vedere, voglio vedere sangue, sangue rappreso, visceri e vene da prendere a morsi. Voglio mangiare cadaveri carbonizzati. Voglio dire uccidere, Uccidere, UCCIDERE, UCCIDERE.” E cominciai a saltellare su e giù berciando “UCCIDERE! UCCIDERE!”, e lui cominciò a saltellare su e giù insieme a me berciando “UCCIDERE! UCCIDERE!”. Poi arrivò il sergente, mi appuntò una medaglia, mi rimandò giù nella hall e disse: “Sei quello che fa per noi, ragazzo.” La cosa non mi fece sentire troppo bene. Scesi giù nella hall beccandomi ancora più iniezioni ispezioni rilevazioni scartazioni e ogni sorta di cose che mi stavano facendo in quel posto di merda là, e ci restai due ore, tre ore, quattro ore, ci rimasi a lungo beccandomi ogni sorta di cose brutte stronze bastarde e insomma ci stavo proprio passando un brutto quarto d’ora là, e loro stavano ispezionando e iniezionando ogni mia parte, non lasciavano intatta neanche una parte. Scesi ancora, e quando alla fine arrivai a vedere l’ultima persona, entrai, entrai e mi misi a sedere dopo aver dovuto passare tutta quella roba, entrai e dissi: “Cosa vuoi?”. Lui disse, “Ragazzo, abbiamo solo una domanda da farti. Sei mai stato arrestato?” E io provvidi a raccontargli la storia della Strage al Ristorante di Alice, con tutta l’orchestrazione e partitura armonica in cinque parti e cose del genere e tutto il fenome… -e lui mi stoppò là e mi disse: “Ragazzo, sei mai stato processato?” E io provvidi a raccontargli la storia delle ventisette fotografie a 8/10 colori con i cerchietti e le freccette, ognuna con una dicitura sul retro, e lui mi stoppò là e mi disse: “Ragazzo, voglio che tu ti metta a sedere su quella panca che dice Gruppo W…ORA, ragazzo!!” E insomma io andai a quella panca, a quella panca là, dove c’erano quelli del Gruppo W, dove ti mettono se non hai i requisiti morali necessari per entrare nell’esercito dopo aver commesso un certo crimine, e c’era ogni sorta di gente brutta stronza e bastarda su quella panca. Stupratori di mamme. Accoltellatori di papà. Stupratori di papà! Stupratori di papà che se ne stavano là a sedere su quella panca, accanto a me! Ed erano dei tipi brutti stronzi bastardi orribili e criminali, quelli che stavano là a sedere accanto a me. E il più brutto, più stronzo e più bastardo, lo stupratore di papà più merdoso di tutti, mi si stava avvicinando e era brutto stronzo bastardo orribile e ogni sorta di cose di quel genere, e era seduto accanto a me e diceva: “Ragazzo, cazzo hai fatto?” Io dissi: “Non ho fatto nulla, ho dovuto pagare 50 dollari e raccattare la spazzatura.” Lui disse: “Per cosa ti hanno arrestato, ragazzo?” E io dissi: “Per sparpagliamento di spazzatura:” E tutti allora si scostarono da me sulla panca, e mi fecero degli sguardi torvi e ogni sorta di cose brutte e stronze finché non dissi: “E ho creato un fastidio”. Allora tutti tornarono, mi strinsero le mani, e ci divertimmo un sacco sulla panca, parlando di crimini, di accoltellamenti della mamma, di stupro del papà, e sulla panca parlammo di ogni tipo di quelle cose alla moda. E tutto andava bene, fumavamo sigarette e ogni sorta di roba, finché non entrò il Sergente con dei fogli in mano, li tirò su e disse: “Ragazzi, questo-pezzo-di-carta-ha-47-parole-37-frasi-58-parole-vogliamo-sapere-dettagli-sulla-tempistica- del-crimine-e-ogni-altra-sorta-di-cose-che-potete-dire-attinenti-al-crimine-Voglio-sapere- motivodellarresto-nomedellagente-e-ogni-altra-sorta-di-cose-che-potete-dire”, e parlò per tre quarti d’ora e nessuno capì una parola di quello che diceva, ma ci divertimmo a riempire i formulari e a giocherellare con le matite su quella panca, e io compilai tutta la Strage con partitura armonica in quattro parti, e ce la scrissi proprio com’era, e tutto era a posto e posai la matita, ripiegai il pezzo di carta e là dall’altro lato, nel mezzo dell’altro lato, completamente da una parte sull’altro lato, fra parentesi, in lettere maiuscole, lessi la seguente dicitura: (“RAGAZZO, TI SEI RAVVEDUTO?”) Andai dal Sergente e dissi: “Sergente, certo che ci hai davvero un bel fegato a chiedermi se mi sono ravveduto, dico io, dico io, insomma, sono qui a sedere sullapanca, voglio dire sto qui a sedere sulla panca del Gruppo W perché vuoi sapere se ho i requisiti morali necessari per entrare nell’esercito, bruciare donne, bambini, case e villaggi dopo che sono stato uno sparpagliaspazzatura.” Lui mi guardò e disse: “Ragazzo, non ci piacciono i tipi come e ora mandiamo le tue impronte digitali a Washington.” Amici, da qualche parte a Washington, racchiusa in qualche fascicoletto, c’è un’analisi in bianco e nero delle mie impronte digitali. E il solo motivo per cui vi sto cantando questa canzone, adesso, è perché magari conoscete qualcuno che si trova in una situazione del genere, oppure perché siete in una situazione del genere, e se siete in una situazione del genere c’è solo una cosa che potete fare, entrare e dire: “Strizzacervelli, puoi avere quel che ti pare al Ristorante di Alice.” Poi uscire. Sapete, se uno, magari solo uno fa così, possono pensare che è davvero fuori di testa e non lo prendono. E se lo fanno due persone, magari solo due persone ma assieme, in armonia, possono pensare che sono due finocchi e non prenderanno nessuno dei due. E provate a immaginare se lo fanno tre persone, tre persone che entrano, cantano una riga del Ristorante di Alice e escono. Penseranno che si tratta di un’organizzazione. E ve le immaginate, ve le immaginate cinquanta persone al giorno, dicevo cinquanta persone al giorno che entrano, cantano una riga del Ristorante di Alice e scono? Amici, penseranno che sia un movimento. Ed è quello che è, Il Movimento Antistrage “Ristorante di Alice”, e tutto quello che dovete fare per entrarvi è cantarlo la prossima volta accompagnandovi con la chitarra. Con sentimento. Così aspetteremo che venga sulla chitarra, qui, e lo canteremo quando verrà. Eccolo. Puoi avere quel che ti pare al Ristorante di Alice Puoi avere quel che ti pare al Ristorante di Alice vacci a piedi e entraci, è giusto là dietro, appena un chilometro dalla ferrovia, puoi avere quel che ti pare al ristorante di Alice E’ stato orribile. Se vuoi farla finita con la guerra e cose del genere, devi cantare a alta voce. Sono stato a cantare questa canzone per venticinque minuti. La potrei cantare per altri venticinque minuti. Non ne sono fiero…o stanco. E così aspetteremo che venga fuori un’altra volta, e stavolta con partitura armonica in quattro parti e sentimento. Stiamo giusto aspettando che venga fuori, è quello che facciamo. Tutto OK ora. Puoi avere quel che ti pare al Ristorante di Alice tranne Alice Puoi avere quel che ti pare al Ristorante di Alice vacci a piedi e entraci, è giusto là dietro, appena un chilometro dalla ferrovia, puoi avere quel che ti pare al ristorante di Alice Da da da da da da da dum Al Ristorante di Alice.
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don-vito-sottocultura · 3 years ago
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Ora inizia ACCADDE AL COMMISSARIATO nino Taranto, Alberto sordi, Carlo dapporto, Lauretta masiero, Walter chiari e tanti altri, un mega cast!!!!!! (presso Don Vito's Cats Bar Home) https://www.instagram.com/p/CWVCNuEDK3H/?utm_medium=tumblr
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campaniareturns · 4 years ago
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Napoli cambia, con le sue forze
“E’ la prima volta che i più cari amici di un tifoso non ci aiutano per fare luce sui fatti”: le parole del Capo della Digos milanese attraverso il monitor della tv, mi paiono scandite ancor più lentamente di come egli deve realmente pronunciarle in diretta stampa.
Che cosa mi colpisce? L’espressione del viso sì certo, ma no, non è quello. E’ altro e, diversamente da quando lessi Sciascia sul Il Caso Moro, stavolta non mi sento in colpa.
Il Capo della Digos parla a latere della conferenza stampa in Questura a Milano per annunciare passi avanti importanti nell’indagine, ma non si limita a quello. Manda un messaggio che apparentemente esula dai suoi compiti: parla della qualità delle relazioni umane.
Penso di poterlo annoverare nel parterre dei miei guru della comunicazione: al momento guida la testa della classifica insieme al magistrato Raffaele Cantone perchè sono luminosi, leggeri e solari e nel loro mestiere non deve essere facilissimo.
Il poliziotto milanese poteva limitarsi alle indicazioni sull’indagine e invece, almeno per me significò così, diede un messaggio alla politica.
Non so quanto tutti ci abbiamo riflettuto sul punto, il Presidente Fassino mi richiama ad alleggerire lo spirito critico, Majorino rideva perché si trovava sempre il Commissariato di PS invitato alle riunioni del Corvetto, quindi lo so che le donne e gli uomini del Coordinamento Interforze, come tutto il personale della PA, per me è il motore della regia pubblica. Del resto per il ruolo che ho avuto non poteva essere che così: dovevo fare il mio dovere, ed il mio dovere è fare in modo che non vi siano incongruenze tra i diversi livelli, aree e settori cosi che tutti siano informati.
Non che il Coordinamento Interforze abbia bisogno di me per esserlo, sia chiaro, nemmeno la struttura della PA  che resta, quella italiana, a mio avviso, un’eccellenza europea; però insomma sostenere il lavoro altrui anche solo nel ricordare come andò la riunione col capo di Gabinetto della Regione Lombardia sull’emergenza sanitaria a Rogoredo, è importante. Perché con tutti i problemi che ci sono, è fisiologico dimenticare un dettaglio, una sfumatura, una valutazione di linguaggio. Di comunicazione appunto.
Comunque dopo le parole del Capo della Digos, qualcosa accadde: Il Sindaco di Napoli e il Sindaco di Milano avviano uno scambio di incontri, convegni presso i rispettivi Municipi per fare asse sulle politiche anti violenza, anti razzismo e sui valori fondanti dello sport.
Ho difeso questa scelta dei Sindaci e sono contenta che proprio ieri al Meeting di Rimini, il “mio” Sindaco ha riproposto il tema delle Città Metropolitane come asse della crescita sostenibile: siamo ritornati alla visione del Presidente Monti che, però, lo ricordo, portava con sé e porta ancora con sé nel recente incarico all’OMS, una visione chiara, intelligente e, soprattutto, trasparente del rapporto pubblico-privato senza convergere sulla quale l’Europa, a mio avviso, sarà sempre in affanno. 
Possiamo pensare veramente di affrontare tutte le sfide che abbiamo innanzi coi soli finanziamenti pubblici e maggior debito ?
O non è il caso forse di tornare da Deloitte, oggi Advisor del Fondo sovrano libico, e riascoltare quel patto tra imprese fisco e giustizia su cui convennero il past President di Confindustria Vincenzo Boccia, oggi Presidente della Luiss (il soggetto europeo che più di tutti finanzia la coesione sociale secondo un’indagine dell’Associazione europea dei consulenti di Foundraising) e il Procuratore generale Greco?
Di patto, per inciso, parla oggi anche il Presidente Bonomi, sempre di patto parlò anche il Ministro degli Interni Minniti.
Capisco che il termine patto possa apparire ad alcuni retorico, soprattutto a chi ha una formazione logico-consequenziale, piuttosto che filosofica, tuttavia la dialettica tra gli attori, come i canali di comunicazione, i vettori di comunicazione e i sillogismi che sappiamo condividere, qualificano l’efficacia delle azioni di ciascuno in un processo di riconoscimento delle istituzioni perché a tutti conveniente.
A volte serve rimettere in fila le cose per tornare ad essere umani.
Sicchè per fare un esempio concreto: quando nel 2009 l’azione di risanamento edilizio di Quarto Oggiaro portato avanti con tenacia dall’Assessore De Corato su spinta di Carmela Rozza, del Sunia e dei Comitati inquilini, si sovrappose all’azione dell’allora Vice Questore di PS De Simone, ai quali interventi si affiancarono  il fortissimo investimento in educativa di strada da parte del Sindaco Moratti, venne naturale il costituirsi di una rete di giovani del quartiere che tra le scuole di formazione professionale, il parco e la musica produsse idee e progetti per la città. Un passo in avanti notevole, lo comprenderete. Un lavoro di promozione sociale a tutti i livelli.
Allora il Corriere della Sera pubblicò un’ intervista a chi stava in carcere che disse una cosa tanto semplice quanto forte “Ragazzi non fate come me, seguite un altro percorso” poi l’elogio della realtà quotidiana nutriente fatta di piccoli gesti e condivisione.
Pensai che il Corriere della Sera fosse un grande giornale: inserito nella realtà, del resto fin da ragazza mi hanno sempre insegnato una cosa “si leggono prima le pagine milanesi del Corsera, poi quelle nazionali” ed io così ho sempre fatto.
Pochi giorni dopo, quell’articolo, un ragazzo del gruppo, pur tendendoci, si defilò dall’invito a partecipare alla trasmissione di Gad Lerner prima delle primarie PD “è meglio cosi, non abbiamo nulla da temere ma abbiamo comunque un nome ingombrante”. I ragazzi dei quartieri popolari nel 2010 pensavano la Città Metropolitana ma quei progetti, ad oggi, sono ancora irrealizzati, quel protagonismo incerto.
Quando tornai ad occuparmi di quartieri popolari 5 anni dopo esatti, iniziai coll’ascoltare il Questore De Iesu proprio a Quarto Oggiaro. 
Egli aveva voluto girarsi tutti i quartieri per un’iniziativa di prevenzione sulle truffe agli aziani… si vede che per chi nasce o appartiene a Salerno, “la prevenzione come motore della crescita sostenibile” è un MUST irrinunciabile, e dopo i mesi di emergenza sanitaria con cui il Presidente De Luca ha dato forza al concetto, possiamo ritenerlo patrimonio comune.
il Questore De Iesu parlò con tutti gli anziani del quartiere, uno a uno. Per la verità non solo quello: salutò tutti gli uomini e le donne PS presenti, moltissimi giovani; mi stupì perché di ciascuno conosceva qualcosa, i genitori, il percorso formativo, la sede precedente di provenienza…
Quando anni dopo andai a salutarlo alla Questura di Napoli, mi sembrò tutto esattamente come a Milano.
In effetti se penso all’inaugurazione dello Spazio Campania a Milano, quando i Presidenti De Luca e Fontana, il Sindaco Sala, Carlo Sangalli, Vincenzo Boccia convennero sulla necessità di progetti di coesione nazionale, mi dissi che la Polizia di Stato guidava quel percorso: con De Iesu, ormai Questore di Napoli, che apriva centri sportivi in tutti i quartieri della città con gli agenti ad insegnare ai ragazzi, coll’allora Prefetto Sgalla sui progetti di riqualificazione delle stazioni a Milano e Roma. Ai quali avremmo poi aggiunto Bari e Catania...
Così quando avvengono i fatti di Piacenza e ascolto le parole della madre del Carabiniere arrestato, rimango ammutolita “parlano di Gomorra solo perché siamo di Napoli. Non ci credo… ma se mio figlio ha sbagliato è giusto che paghi”.
Non riesco a commentare oltre, non so come abbia fatto il Comandante dell’Arma Nistri, con quale forza… Eppure l’intervento di saluto ai suoi uomini il 15 Agosto era solare e mi ha tranquillizzata.
Nei giorni di Piacenza entrai per caso in una piccola galleria d’arte per acquistare una cornice per un caro amico che aveva appena perso la mamma. La gestisce un napoletano trasferito a Milano da molti anni: “sono stanco persino di essere napoletano, non perchè non amo più la mia terra sia chiaro, anzi proprio perchè l'amo ancora di più. Sono stanco che ci perpetuiamo nella nostra identità all'infinito, sempre uguali a noi stessi, all'identità bella e maledetta che ci affibbiano".
Adoro Napoli al pari di Istanbul, Tunisi, Lisbona e Londra… non ne abbiano a male le altre, il mare per me è essenziale e tutte le città in cui ancora non sono stata.
Napoli cambia proprio in questi frangenti.
Cambia con il Presidente De Luca che si insacca nelle spalle allo stadio durante l’evento di inaugurazione delle Universiadi con il solo Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Giancarlo Giorgetti poco dopo pubblicamente così: “complimenti al Presidente De Luca, Napoli ha dimostrato di saper vincere la sfida di Città europea”.
Napoli cambia quando non trovo un tassista che non mi dica che la mobilità urbana voluta da De Luca per le Universiadi tiene insieme “i nostri bisogni di categoria col desiderio di turisti e cittadini di godersi liberamente la città”.
Napoli cambia quando incontro non pochi che dalla Svizzera, dalla Germania e da Milano hanno scelto, per amore, di trasferirsi giù.
Napoli cambia quando senti i commercialisti dell’Ordine ragionare di innovazione, di ampliamento degli studi professionali per far convergere competenze diverse, creativi, architetti, artisti e tornare a progettare l’urbanistica.
Napoli cambia quando la Fondazione Sud organizza un convegno apposito per ragionare sulla qualità delle relazioni che abbisognano le persone in difficoltà sul piano fisico e psicologico proponendo una gamma di servizi innovativa.
Napoli cambia quando dopo mesi e mesi, finalmente Vito Grassi il Presidente dell’Unione Industriale mi dice “d’accordo Silvia, proviamoci, ora vedo chi dei miei può sostenere il progetto per l’intero mezzogiorno”.
Napoli cambia quando il Ministro dell’Università dalle pagine del Corriere chiede progetti per unire eccellenze e promozione sociale così da fare “alfabetizzazione e crescita digitale” per fmiglie, giovani ed imprese giocando di sponda ad uno dei progetti nato, anch’esso, a Quarto Oggiaro.
Quando alla conferenza stampa dell’altro giorno sulle misure per arginare il Covid, De Luca ci tiene a preannunciare che nei prossimi giorni verranno annunciati interventi su Napoli, lo fa con uno sguardo premuroso, dolce e rispettoso… Certo la compagna napoletana ne riempie il cuore, ma tutti quanti abbiamo davanti agli occhi Napoli nei mesi del lockdown, quel senso di responsabilità dal sapore asburgico, quella gara di charity locale sulla quale, intelligentemente, solo alla fine interviene la donazione di Intesa San Paolo. 
Sarà forse per tutto questo che a Milano abbiamo deposto una piantina per Pasquale Apicella (ancora in fiore), il poliziotto ucciso mentre difendeva una banca in piena emergenza coronavirus
Caro Governatore Visco, Napoli cambia... con le sue proprie forze.
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pangeanews · 5 years ago
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Quando i Comunisti cercarono di assassinare George Orwell
I fatti sono noti. George Orwell sposa Eileen O’Shaughnessy il 9 giugno del 1936, a 33 anni. Poco dopo, in viaggio di nozze, diciamo così, la porta in Spagna, a combattere i fascisti tra le fila del Partido Obrero de Unificación Marxista. Ha già pubblicato una manciata di romanzi, al limite del saggio. Senza un soldo a Parigi e Londra, Giorni in Birmania, Fiorirà l’aspidistra. Nel 1937, mentre è in Spagna, esce La strada di Wigan Pier, che parte da una inchiesta sulla vita dei minatori, nel South Yorkshire. In Spagna, Orwell ha fama di rompiscatole: fin da subito osserva – e denuncia e appunta – gli “scontri fratricidi all’interno della sinistra”. “Quando mi accingo a scrivere un libro io non dico, ‘Voglio produrre un’opera d’arte’. Lo scrivo perché c’è qualche bugia che voglio smascherare”: questo è lo zenit di Orwell (Perché scrivo, 1946). La bugia da smascherare, in quel caso, è che tra i buoni&giusti della sinistra che combatte i fascisti franchisti ci sono degli emeriti bastardi, degli assassini.
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I fatti sono noti. Li faccio ripetere da Guido Balla, che ha curato il ‘Meridiano’ Mondadori che raduna i Romanzi e saggi di Orwell. “La terza visita di Orwell a Barcellona ha luogo il 20 maggio, quando torna dal fronte con la gola ferita dal proiettile di un cecchino fascista. In città è in corso una vera caccia all’uomo: il governo centrale, fortemente condizionato dall���appoggio militare fornito da Stalin alla causa repubblicana, perseguita e incarcera senza processo oppositori e dissenzienti di sinistra. Anarchici e trockijsti, veri o presunti, vengono presentati come conniventi con il franchismo. Il 23 giugno, dopo aver vissuto da braccati nella capitale catalana, George ed Eileen attraversano miracolosamente la frontiera francese. Il sogno di una prima vittoriosa lotta di popolo contro il fascismo s’infrange nel modo più misero e brutale”. Di fatto, la Spagna diventa terra fertile, per gli agenti russi, gli stalinisti di ferro, per far piazza pulita di quelli che, pur a sinistra del globo politico, non vedono in Stalin un illuminato mecenate. Per Orwell l’esperienza è devastante, e trova sfogo nel reportage Homage to Catalonia, pubblicato nel 1938 dalla piccola casa editrice londinese Secker & Warburg. “La Guerra civile spagnola ha trasformato per sempre lo scrittore, rafforzando in misura assolutamente identica il suo antifascismo e il suo antistalinismo, trasformandolo in un socialista senza partito” (Balla). Sul “New Leader”, il 13 giugno del 1938, scrive: “Sono uno scrittore. L’impulso di ogni scrittore è quello di ‘tenersi alla larga dalla politica’. Desidera essere lasciato in pace per poter continuare tranquillamente a scrivere i propri libri. Purtroppo è sempre più chiaro che questa idea è irrealizzabile… Verrà il tempo – non fra un anno, forse, né fra dieci o venti – in cui lo scrittore si troverà a un bivio: ridursi al silenzio oppure produrre la droga che una minoranza privilegiata gli richiederà. Sento il dovere di oppormi a tale tendenza, come sento il dovere di oppormi all’olio di ricino, ai manganelli e ai campi di concentramento”. Contro il capitalismo, contro l’imperialismo comunista: Orwell si oppone alla destra ed è la corona di spine della sinistra. Lo stigma della contraddizione.
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Accademico ad Harvard, collaboratore del “Daily Telegraph”, il bostoniano Duncan White ha appena firmato un libro, Cold Warriors. Writers who Waged the Literary Cold War, che fa la conta degli scrittori impegnati a diverso titolo entro la magione della Guerra Fredda. Il capitolo che White dedica a George Orwell, marcando i nomi degli inglesi che si prestarono a fare le spie per l’Urss e i segugi dello scrittore, è stato pubblicato da “Literary Hub” con titolo tonante, The Communist Plot to Assassinate George Orwell. Qui ne pubblico un brandello.
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Quando la “Left Review” interpella, spudoratamente, Orwell in merito alla questione spagnola, si vede recapitare un foglio impubblicabile, implacabile. “Volete piantarla, per favore, di mandarmi questa stronzata? Io non sono uno dei vostri finocchietti alla moda come Auden e Spender. Io sono stato in Spagna per sei mesi, quasi sempre al fronte, nel corpo ho ancora un foro di proiettile e non intendo cianciare di difesa della democrazia e del piccolo glorioso popolo eccetera eccetera eccetera. Oltretutto io so cosa sta succedendo, cosa succede ormai da mesi da parte governativa, e cioè che il fascismo viene imposto ai lavoratori spagnoli con il pretesto della resistenza al fascismo; so anche che da maggio si è instaurato il regno del terrore e che tutte le galere e ogni luogo che si presti a essere trasformato in galera traboccano di detenuti non solo incarcerati senza processo, ma anche ridotti alla fame, percossi e insultati… Senza dubbio voi sapete qualcosa delle vicende interne alla guerra e vi siete consapevolmente schierati in difesa della truffa della ‘democrazia’ (cioè del capitalismo), per dare il vostro contributo a schiacciare la classe operaia spagnola e difendere così indirettamente i vostri piccoli luridi dividendi”. Continuerà a lottare contro gli intellettuali di parte, quelli delle “frasi ripetute a pappagallo”, delle “mutue e redditizie leccate che fioriscono nel mondo letterario inglese” (12 luglio 1942), contro i politici, contro la politica. Contro se stesso e le proprie sicurezze, infine. (d.b.)
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Quando George Orwell tornò a Barcellona per la terza volta, il 20 giugno del 1937, capì che la polizia segreta spagnola gli stava alle calcagna. Era stato costretto a tornare al fronte per controfirmare i documenti di dimissione, in sua assenza i comunisti avevano iniziato un’epurazione di quelli che credevano i loro nemici. Orwell era in quella lista. Quando arrivò nella hall dell’Hotel Continental, Eileen gli si avvicinò con calma, gli mise un braccio intorno al collo, sorrise, a beneficio di quelli che la fissavano. Quando furono sufficientemente vicini gli sibilò all’orecchio: “Vattene”.
Eileen guidò uno sconcertato Orwell verso l’uscita dell’albergo. Marceau Pivert, un amico francese di Orwell che stava entrando in quell’istante nella hall, si angosciò al vederlo, gli disse che avrebbe dovuto nascondersi, prima che i gestori chiamassero la polizia. Un inserviente compiacente si unì al gruppo, sollecitando Orwell, nel suo inglese incerto, a lasciare l’albergo. Eileen riuscì a condurlo in una strada laterale, poi in un bar, dove gli fece capire la gravità della situazione.
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David Crook era un giovane inglese che lavorava per l’Independent Labour Party di Barcellona: negli ultimi mesi era diventato amico di Orwell e della moglie. Non era quel che sembrava. In Spagna dal gennaio del 1937, un mese dopo Orwell, voleva unirsi alle Brigate Internazionali per combattere i fascisti. Discendente di ebrei-russi immigrati, era cresciuto a Hampstead, frequentando il prestigioso Cheltenham College. Come molti giovani cresciuti dopo la Prima guerra mondiale, era attratto dalle cause della sinistra. A New York frequentò la Columbia, abbracciò la politica, entrando nella Young Communist League. A Londra diventò un membro del partito comunista britannico. Ferito durante la battaglia di Jarama, con tre proiettili alla gamba, tradotto a Madrid, socializzò con i letterati che si erano radunati laggiù, tra cui spiccava la brillante corrispondente Martha Gellhorn, il suo amante, Ernest Hemingway, Mulk Raj, Stephen Spender. Fu in quel momento che fu contattato dagli agenti dei servizi segreti sovietici. Dopo averlo reclutato, l’NKVD (il Commissariato del popolo per gli affari interni dell’Unione Sovietica) lo portò in un campo di addestramento ad Albacete per fargli svolgere un corso intensivo in sabotaggio e tecniche di sorveglianza. Fu lì che Crook divenne una spia comunista. La sua missione era quella di infiltrarsi nell’ILP (il Partito Laburista Indipendente) e riferire sulle loro attività. I sovietici disponevano già di un agente, David Wickes, che si era offerto per interpretare i documenti dell’ILP. Ora Crook doveva penetrare più in profondità nei meccanismi del partito e produrre documenti. Orwell era il suo obbiettivo più prestigioso.
Come copertura, Crook faceva finta di lavorare per un giornale britannico, con credenziali documentate da “un compagno londinese”. L’NKVD fece in modo che fosse dimesso dalla Brigata Internazionale per un “problema polmonare”. Appena Orwell si spostò verso il fronte, Crook si installò all’Hotel Continental, entrando in amicizia con Eileen e insinuandosi negli uffici dell’ILP. Durante le lunghe pause pranzo, quando l’ufficio era deserto, Crook portava i documenti in una casa sicura, in Calle Mountaner, e li fotografava. Compilò diversi rapporti su Orwell, Koop e McNair, consegnandoli, in un bar, ripiegati dentro un giornale, al gestore, Hugh O’Donnell (nome in codice “Sean O’Brien”). Qualche volta, scrisse i suoi rapporti nei bagni dell’hotel. Crook riporta, tra l’altro, che tra Koop ed Eileen stava sbocciando una relazione. Simili informazioni erano necessarie all’NKVD per attuare la strategia del ricatto.
Tra i documenti prodotti da Crook, c’è anche il rapporto del medico di Orwell in merito alla sua ferita al collo, finito nel fascicolo del KGB a Mosca. Stava registrando le prove necessarie a giustificare l’epurazione dello scrittore.
Il raid nella stanza di Eileen accadde nelle prime ore del 16 giugno, il giorno in cui il governo Repubblicano controllato dai comunisti aveva dichiarato il POUM (il Partito Operaio dell’Unificazione Marxista) un’organizzazione illegale. L’NKVD e la polizia segreta spagnola si muovevano verso gli stessi obbiettivi. André Nin, il leader del POUM, già segretario privato di Trotskij a Mosca, fu “arrestato, brutalmente torturato, scorticato vivo, quando si rifiutò di confessare i propri crimini immaginari”. Irwin Wolf, un altro degli ex segretari di Trotskij, fu rapito e giustiziato. Kurt Landau, eminente trotskista austriaco riuscì a nascondersi, ma grazie alle informazioni raccolte da Crook, fu scoperto, rapito e ucciso anche lui. La moglie di Landau fu confinata in prigione per cinque mesi, chiedendo invano notizie sulla sorte del marito.
Durante il raid nella stanza di Eileen, gli agenti confiscarono diari, documenti, fotografie e libri di Orwell, tra cui una edizione francese del Mein Kampf di Hitler e, ironia della sorte, il testo in cui Stalin spiega “le strategie per liquidare i trotskisti”. Per due ore i poliziotti controllarono i radiatori, cercarono nascondigli, setacciarono la spazzatura, investigarono tra gli abiti alla ricerca di lettere o opuscoli nascosti. Eileen aveva nascosto passaporti e libretti degli assegni sotto il letto. “La polizia segreta spagnola ha gli atteggiamenti della Gestapo, ma non la sua competenza”, scriverà Orwell. Eileen temeva che la usassero come esca per arrestare il marito… Orwell era tornato a Barcellona il 20 giugno. Era chiaro che avrebbe dovuto andarsene rapidamente per evitare che gli capitasse la stessa sorte degli altri affiliati al POUM.
Duncan White
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paoloxl · 7 years ago
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Torino 1917, come la rivolta per il pane diventò una sommossa contro la guerra
Riprendo in ritardo dal sito di Sinistra Anticapitalista questo breve ricordo di un episodio fondamentale della lotta di classe in Italia che in molti hanno tentato di far dimenticare, perché dimostra che i bolscevichi non si sbagliavano cogliendo in molti paesi i segni di una radicalizzazione spontanea, che poteva trasformarsi in rivoluzione europea e mondiale contro la guerra e il capitalismo. Nello stesso 1917 c’erano state in primavera tra le truppe francesi (e anche in alcuni contingenti russi inviati a rafforzare il fronte occidentale) sollevazioni spontanee, e durante i primi mesi del 1918 un’ondata di scioperi aveva scosso gran parte dell’impero austroungarico e aveva raggiunto molte fabbriche tedesche, proprio mentre era in corso la difficile trattativa per la pace di Brest Litovsk. Scioperi operai e sollevazioni militari furono numerosi ma rimasero isolati, e quindi esposti a una dura repressione per il tradimento delle burocrazie sindacali e socialiste. (a.m.)
Cento anni fa, il 21 agosto del 1917, donne e uomini proletari/e di Torino insorsero spontaneamente contro la mancanza di pane ma immediatamente la protesta si trasformò in sciopero generale contro la guerra.  Il 23 agosto è indetto uno sciopero generale che paralizzerà la città. La classe operaia, guidata da cortei di donne, saccheggerà negozi, caserme e la Chiesa della Pace, asportando dalla cantina del parroco, il vino e le provviste contenute che furono poi distribuite alla folla.  Il Prefetto richiede al governo di Roma, senza esito, l’applicazione del codice militare di guerra, dichiarando Torino e la sua provincia zona di guerra. Il 24 agosto è la giornata più sanguinosa, i dimostranti cercano di rompere l’assedio posto dalle truppe governative in Barriera di Milano e in Borgo San Paolo. Solo il 28 agosto 1917 quando le autorità annunciano che “l’ordine regna a Torino” tutto ritorna nella normalità, almeno secondo la classe politica ma non secondo gli operai che dopo le giornate di lotta, subiscono una vera scia repressiva che porta all’arresto di molti operai e all’invio al fronte di quelli esonerati perché addetti alla produzione bellica.
La prima guerra mondiale aveva fatto registrare un drastico degrado economico. Se nel 1914, una famiglia composta da cinque persone spendeva per nutrirsi 20 lire e 80 centesimi circa, nel 1917 quella stessa famiglia per acquistare gli stessi prodotti dovrà spendere 39 lire e 50 centesimi. Già dal 1916, i torinesi iniziarono singolari proteste operaie contro la classe politica, situazione che precipita nel 1917, quando si registra un aumento notevole dei prezzi dei generi alimentari: il 2 agosto il costo del pane aumenta di 10 centesimi al chilo. Alla fine di agosto, quando il pane manca in quasi tutta la città, scatta una rivolta spontanea nei quartieri operai, che unisce motivazioni economiche a rivendicazioni politiche.
Scriverà Gramsci nel 1920:
“Invano avevamo sperato nell’appoggio dei soldati; i soldati si lasciarono trarre in inganno che la rivolta fosse stata provocata dai tedeschi…Le donne operaie e gli operai che insorsero nell’agosto a Torino, che presero le armi, combatterono e caddero come eroi, non soltanto erano contro la guerra, ma volevano che la guerra terminasse con la disfatta dell’esercito della borghesia italiana e con una vittoria di classe del proletariato. Con ciò essi proclamavano che la guerra non crea un interesse comune tra la classe borghese dominante e i proletari sfruttati, con ciò essi superavano in modo definitivo le posizioni pseudoclassiste e pseudointransigenti del Partito Socialista”.
Ecco la testimonianza di Teresa Noce, allora diciassettenne, dal “Rivoluzionaria professionale. La storia del PCI nella vita appassionata di una donna”.
[Teresa Noce (Torino, 29 luglio 1900 – Bologna, 22 gennaio 1980), quattro anni dopo sarà tra le fondatrici del Partito comunista d’Italia. Nel 1926 sposò Luigi Longo con cui si recò in Spagna tra i volontari antifranchisti accorsi in difesa della Repubblica. Nome di battaglia Estella. Prese parte alla Resistenza in Francia, arrestata e deportata in vari campi di concentramento fino alla liberazione da parte dell’esercito sovietico. Alla fine della guerra,  fu tra le 21 donne elette all’Assemblea costituente italiana, lavorò nel sindacato. Fino al ’53 quando Longo ottenne l’annullamento del matrimonio a San Marino presentando un documento che conteneva una firma contraffatta di Teresa Noce. Nelle sue memorie riporta di avere appreso questo fatto dalle pagine del Corriere della Sera e che per lei rappresentò un evento «grave e doloroso più del carcere, più della deportazione». La sua decisione di rivolgersi alla Commissione Centrale di Controllo del PCI con l’intento di denunciare il comportamento di Longo fu considerata inopportuna da una parte del gruppo dirigente del Partito e questo determinò la sua esclusione dalla Direzione].
La cronaca di Teresa Noce
Noi, a Torino, la guerra non la volevamo più. Volevamo che tornassero i nostri soldati dal fronte e volevamo mangiare. In quel mese d’agosto, se in fabbrica si crepava di caldo, in casa si moriva di fame. Usciti dal lavoro si faceva la coda dal fornaio, ma il più delle volte il pane era finito. Così, sempre più sovente, si rientrava al lavoro gridando: «Sacco vuoto non sta in piedi e tanto meno può lavorare».
Cominciarono le donne che soffrivano più di qualsiasi altro per la fame e per la guerra. Quasi tutte adesso lavoravano in fabbrica: bisognava dare da mangiare ai bambini mentre i mariti e i figli grandi erano al fronte. Ma cosa dare da mangiare ai bambini se nelle botteghe non c’era pane?
Il 21 agosto 1917, un martedì, il pane mancò completamente. I lavoratori usciti dalle fabbriche incontrarono davanti alle panetterie sbarrate le donne che, inutilmente, facevano la coda da ore. Si cominciò a gridare: «Pane! Sciopero! Abbasso la guerra!».
I fornai erano piantonati ma, in un attimo, i carabinieri furono travolti e contro le donne non osarono sparare. Porte e saracinesche furono abbattute dalle donne che presero d’assalto tutti i viveri a portata di mano. Nessuno quel giorno rientrò in fabbrica. Alcune direzioni di stabilimenti, alla Diatto e alla Proiettili (dove lavoravano solo donne) mandarono a prelevare camion di pane ai panifici militari. Ma quando i camion arrivarono, le donne li presero d’assalto, si distribuirono il pane e, invece di rientrare al lavoro, si diressero in città urlando: «Abbasso la guerra!».
Al pomeriggio tutte le fabbriche erano ferme. Gli operai sapevano cosa rischiavano: poiché erano tutti militarizzati, potevano essere immediatamente spediti al fronte, se non deferiti davanti al Tribunale Militare. Ma le donne, che sapevano tutto questo, si misero davanti a loro. Cortei tumultuanti arrivarono in centro. Le donne gridavano: «Al municipio! Dal prefetto! Nominiamo una commissione!».
Macché commissione, abbasso la guerra! Così la mossa per il pane cominciò a trasformarsi in rivolta contro la guerra. Sorsero le prime barricate. Furono rovesciati i tranvai e gli autocarri scaricati del pane e della farina. Si udirono i primi colpi di arma da fuoco. Nessuno dormì quella notte. Al mattino del mercoledì la città era paralizzata dallo sciopero generale. Tutto rimase fermo, dale fabbriche ai laboratori e dai negozi ai trasporti.
Le barriere si moltiplicarono. Alcune improvvisate, tali da non poter offrire resistenza alle cariche della cavalleria. Ma altre fatte a regola d’arte, soprattutto nei rioni periferici. La barricata costruita all’angolo di corso Vercelli con via Carmagnola, dov’era la Fiat Brevetti, tenne in iscacco forze di polizia e truppa per oltre venticinque ore. Era stata costruita con decine di grossi tronchi d’albero, tagliati sul corso vicino all’altra Fiat (la San Giorgio) e con alcuni pesanti carri ferroviari provenienti dal deposito Dora.
Un’altra solidissima barricata venne eretta sul corso Principe Oddone, all’altezza di corso Regina Margherita. Costruita anche questa con vetture tranviarie rovesciate, era circondata da filo spinato nel quale gli operai facevano passare la corrente elettrica. Ma, tagliando la città in due, queste barricate finirono per impedire alle forze operaie della Barriera di Milano di congiungersi con quelle di Borgo San Paolo, l’altro centro della rivolta.
Il fatto che lo sciopero totale continuasse e che un po’ dovunque sorgessero le barricate nonostante le cariche della cavalleria, spaventò le autorità. La reazione si scatenò: allo scopo di disperdere la folla, la forza pubblica cominciò ad arrestare per le strade uomini e donne. Gli arrestati vennero picchiati ferocemente e trascinati sui camion. Poi l’autorità decise di intervenire con la truppa: fece occupare i punti strategici più importanti e arrivarono i carri armati.
Ma, appena apparvero i soldati, questi furono accolti dalla popolazione come fratelli. Le donne si infiltrarono tra loro offrendo cibo e vino. Era proprio per loro – dicevano le donne – proprio perché i soldati non andassero a morire in guerra, che Torino era insorta. E ogni famiglia operaia abitante nelle strade presidiate dalla truppa si occupò dei “suoi” soldati. Con la pastasciutta li esortò a fraternizzare.
Questo atteggiamento non tardò a portare certi frutti. Un reparto di alpini ricevette l’ordine di sparare, ma i soldati, dopo aver lungamente esitato, di fronte alle donne, posarono i fucili a terra e voltarono le spalle alla folla.
Ciò accadde sul corso di Ponte Mosca, alla Barriera di Milano e, subito dopo, il Commissariato di polizia di quello stesso quartiere fu preso d’assalto ed espugnato dalla folla. Poi questa si diresse di corsa, attraverso Porta Palazzo, verso il centro della città per raggiungere Piazza Castello dove c’era la Prefettura, e piazza San Carlo dov’era la Questura, e a via Cernaia dov’erano le caserme principali.
Ma non fu possibile. Il contrattacco fu tremendo: contro i pochi fucili dei rivoltosi entrarono in azione le mitragliatrici e i carri armati che cominciarono a vomitare fuoco tanto su ci fuggiva quanto su chi resisteva, e contro le finestre delle case, contro i negozi, contr tutto. Caddero uomini, donne e perfino bambini.
Tuttavia la lotta non cessò. Continuò lo sciopero e continuavano a sorgere barricate. Si cantava ovunque: «Prendi il fucile e gettalo per terra.
Vogliamo la pace, vogliamo la pace,
mai più vogliam la guerra».
Giorno e notte rintronavano i colpi di fucile e le raffiche di mitragliatrice. Poi, a poco a poco, la rivolta si esaurì. Senza armi e senza direzione gli insorti non potevano vincere. Ancora una volta Torino era stata lasciata sola: nessun’altra città, nessun’altra fabbrica si unì agli operai torinesi.
Il sabato di quella che in seguito sarebbe stata chiamata la “settimana rossa”, il Consiglio comunale di riunì con i dirigenti della Camera del lavoro. Gli operai furono invitati a rientrare in fabbrica per il lunedì seguente. Le autorità fecero subito affiggere dappertutto tale invito e, agli operai, non rimase che tornare al lavoro: oramai non potevano fare altro.
Ma non rientrarono tutti. Non rientrarono le centinaia di arrestati e le migliaia di “militarizzati” subito spediti al fronte. Non rientrarono in fabbrica i caduti di quella settimana arrossata dal sangue di tanti lavoratori. Quanti furono i morti? Ufficiosamente si disse una cinquantina, ma certo furono molti di più, anche se non si seppe mai quanti. E non solo uomini, ma anche donne e bambini.
Qualche settimana dopo, verso la metà di settembre, mio fratello venne a casa in licenza. A Pisa aveva saputo ben poco degli avvenimenti di Torino. I giornali erano stati censuratissimi. Anch’io, nelle mie lettere, ero stata molto prudente, tanto che lui non aveva capito ciò che era veramente successo nella nostra città e ardeva di saperne di più. Per lunghe ore parlammo degli avvenimenti, della rivolta, degli operai che si erano battuti, del coraggio delle donne che si erano lanciate contro i carri armati e si erano sdraiate a terra per impedire che questi si lanciassero contro i rivoltosi.
Mi sentivo ormai adulta, certo più matura dei miei diciassette anni. Anche mio fratello se ne era accorto e non mi considerava più come la sorellina minore. Discutendo, convenimmo insieme che quella di Torino non era stata solo un’esplosione di malcontento, ma una rivolta del proletariato che non voleva la guerra, alla quale si era opposto fin dal 1915. L’aveva sopportata per forza, ma non l’aveva mai accettata. Altro che il “non aderire e non sabotare” dei capi socialisti! Il malcontento esploso per la mancanza di pane si era subito trasformato in rivolta contro la guerra.
Se due anni prima solo la parte più avanzata del proletariato era scesa nelle strade per impedire l’entrata in guerra dell’Italia, questa volta a battersi per imporre la pace era stata la maggioranza della popolazione torinese. Essa era dunque maturata come ero maturata io.
Mio fratello, riflettendo ad alta voce, diceva: «Il fatto più importante è che alla lotta non hanno preso parte solo alcune centinaia di operai, ma decine di migliaia di persone di tutti i ceti, di tutte le categorie: lo provano le liste dei morti, dei feriti, degli arrestati, dove è rappresentato ogni strato della popolazione lavoratrice. E senza guida, senza direzione. Pensa che cosa avrebbero saputo fare se fossero stati ben diretti!».
Prima che mio fratello ripartisse per andare a Foggia, a conseguire il brevetto di secondo grado, parlammo anche della situazione internazionale. Entrambi ne sapevamo ben poco, perché i giornali erano scarsi di notizie. Ma qualche cosa trapelava nonostante la censura. La rivoluzione contro lo zar, scoppiata in Russia alcuni mesi prima, non era andata molto avanti, perché i russi continuavano la guerra. Ma si parlava sempre di più di Lenin e dei bolscevichi che lottavano anche laggiù per imporre la pace.
Neanche mio fratello sapeva molto bene chi fosse Lenin. Gli raccontai allora dei due menscevichi arrivati a Torino e che le autorità avevano lasciato parlare in un comizio. Avevano parlato della guerra, non contro la guerra. Gli operai li avevano accolti al grido di “Viva Lenin! Viva la Rivoluzione russa!”. E i due se ne erano andati borbottando.
http://antoniomoscato.altervista.org/index.php?option=com_content&view=article&id=2840:torino-1917-come-la-rivolta-per-il-pane-divento-una-sommossa-contro-la-guerra&catid=57:imperialismi&Itemid=73
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